mercoledì 18 settembre 2024

Riscopriamo la persicata ferrarese!

Si faceva con le pesche settembrine questa squisitezza un tempo famosissima ed ora del tutto dimenticata

 

 

 

 

 

Provate a chiedere ad un ferrarese: “Sai cos’è la Persicata?” Probabilmente nessuno saprà dare una risposta. O forse solo chi ricorda un paio di manifestazioni culinarie cittadine una tantum di alcuni anni fa, dedicate proprio alla riscoperta di quella specialità perduta, delle quali però è rimasta traccia solamente in alcune pagine web. Nella memoria cittadina quell’antica prelibatezza è totalmente assente. E allora, siccome era questo il periodo dell’anno in cui veniva creata, proviamo a ripercorrere la sua intrigante storia.

Il nome pesca deriva dal latino persica malus cioè mela persiana, perché i romani la importarono della Persia (però in Cina esisteva già oltre due milioni di anni fa!). Persga o persica è chiamata anche nel nostro dialetto. La persicata era la specialità dolciaria più conosciuta nel ferrarese dal rinascimento al secolo scorso ed era talmente buona da essere conosciuta ben oltre il confine:

 "I confetti di Pistoia e Foligno, gli ossi di morto di Perugia, il torrone di Cremona, le persicate di Ferrara, il panforte di Siena, e poi il cioccolato di Torino Milano Genova Napoli e gli agrumi canditi della Sicilia..."  Nella Great London Exposition del 1862, nella sezione sulle delizie culinarie italiane, "From Tyrol to Palermo", la persicata ferrarese era tra le squisitezze più rinomate: «preserved peaches, known under the name of persicata».

Una decina di anni prima, in una relazione relativa all’esposizione universale di Parigi, vengono lodati per tale prelibatezza i produttori “de Ferrare, qui se sont essayés dans la conservation des fruits sucrés à mucilage abondant; ils ont envoyé plusieurs échantillons de persicata ou conserves de pèches». E appaiono nel catalogo della prima esposizione italiana, tenuta a Firenze nel 1861, «le persicate e le cotognate di Ferrara, polpe o meglio gelatine di pesche o di mele cotogne conciate in zucchero e disseccate, squisite per il sapore e la conservazione della fragranza propria dei frutti».

 

 

 Ferrara ne contende le origini antiche con Brescia, dove, anche se ben diversa da com’era la nostra, la persicata continua a essere prodotta con successo e si presenta come una confettura di cubetti di gelatina zuccherati. E’ raccontata in molti siti web, e persino il noto chef Iginio Massari ne spiega la ricetta. C’è pure una leggenda che racconta che una madre di Collebeato la inventò per poter inviare al figlio in guerra dei dolci che non si deteriorassero rapidamente.  Notizia reale, invece, è che delle gelatine bresciane era golosissimo Gabriele D’Annunzio, che per esse sospendeva i suoi ascetici digiuni.

 

                                 


 

A Venezia, vicino a Rialto, in una strada (ruga) intitolata agli spezieri, possiamo vedere due bassorilievi in marmo con coppie di pesche (persichi) in un pilastro d’angolo: sono il simbolo di quella che era la Confraternita della Persicata (persegata). Dolce nelle tavole del rinascimento molto in uso ed ora sostituito con la cotognata per la festa di San Martino.

 

 

                                         


 

 Ma arriviamo finalmente alla prelibatezza ferrarese.

I monasteri avevano attorno grandi orti, protetti dal freddo e dai venti perché racchiusi entro muri di cinta (erano detti broli), e qui venivano coltivati piccoli frutteti (di viti, pere, mele e pesche). Le monache di clausura erano certamente abili nelle confetture e la fama della persicata aveva eco soprattutto grazie a quelle operosissime di Sant’Antonio in Polesine. 

Il celebre scalco degli Estensi, Cristoforo da Messibugo (sepolto proprio a Sant’Antonio) la riportava come immancabile nei servizi di credenza dei ricchi banchetti.

Va ricordato che fino a pochi decenni fa le benedettine confermavano il loro motto “Ora et labora”, rivelandosi perfette rilegatrici di libri e pazienti e precise ricamatrici, e anticamente, specie al tempo degli Estensi, erano esperte anche nelle preparazioni erboristiche ad uso medicinale. La loro persicata pare che fosse apprezzata oltre che come delizia per il palato anche per i suoi effetti ristoratori e benefici. E che quindi venisse offerta ai nobili o ai pellegrini che arrivavano al monastero per venerare le spoglie della beata Beatrice II d’Este.

 Nella settecentesca pianta di Ferrara di Andrea Bolzoni si ha testimonianza della presenza di stretti filari di piante, nell'orto del monastero, mentre ben povero di queste è ai giorni nostri. Così come ormai poche sono rimaste le monache, tredici in tutto. Alcune dipingono immagini sacre, alla maniera delle icone russe, ma da molti anni nessuna rilega libri o rammenda e ricama. Per fortuna rimane viva la loro straordinaria tradizione del canto gregoriano esclusivamente al femminile! 

 

 

                             


                            



Pochi giorni fa ho suonato alla porticina del monastero, per scoprire di più a proposito di quella che era la loro famosa persicata. Speravo di sapere se fossero da loro conservati documenti, fino a quando era stata da loro prodotta e magari con che ricetta. Mi ha accolto Suor Gemma, arrivata a vivere cinquantatre anni fa entro le mura del convento, in compagnia di allora trentadue sorelle. Non aveva mai sentito parlare di quel dolce misterioso (e come lei certamente le altre monache; la madre superiora, come di regola, proviene da un’altra città). Nessun albero di pesche è esistito in questo mezzo secolo in quel brolo oltre Via Gambone. 

Insomma, di quella prelibatezza famosa fino a Londra e Parigi si è persa nel suo luogo d’origine ogni traccia di memoria. L’unico frutto della mia visita è stato il permesso di poter fare una foto allo spazio verde esterno, con i pochi filari di giovani piante di pere e mele, visibile attraverso le grate di una finestra nella cappella di destra della chiesa interna, quella in cui si conserva il gruppo scultoreo cinquecentesco del Compianto sul Cristo morto.

   

                                



Non erano solo le benedettine, a prepararla, se, come si legge in un documento citato in uno studio del nostro concittadino Don Enrico Peverada, nel 1598 appaiono tra i doni elargiti dalle monache agostiniane, famose come eccellenti cantore, del Monastero di San Vito, che esisteva dove ora è l’ex caserma di Via Cisterna del Follo.


                                 

                                         



 Una ricca documentazione sulla storia della golosità ferrarese è raccolta in un articolo pubblicato nel 2013 sulla rivista quadrimestrale La Pianura, riportata online:La persicata ferrarese dalle tavole di principi ed ecclesiastici alle botteghe del commercio quotidiano”. 

Due studiose hanno ripercorso ogni traccia, attingendo all’archivio storico comunale di Ferrara. Vi possiamo rileggere anche diverse lodi poetiche, tra cui questa:

 

                                        


 

Si scopre che Isabella d’Este, sposata Gonzaga, faceva arrivare alla corte mantovana la persicata ferrarese, commissionandola allo speziale degli Estensi, Vincenzo Morello di Napoli. E Cosimo de Medici tornò da un viaggio a Ferrara con due vasi di quel dolce bottino.

E se D’Annunzio era goloso delle gelatine bresciane, scopriamo che della nostra delizia di pesche impazzivano Torquato Tasso, il cantante castrato Farinelli, Riccardo Bacchelli..

Si può cercare di scoprire la forma del nostro dolce attraverso l’immagine di un’acquaforte seicentesca che ritrae venti personaggi che mostrano ognuno la specialità gastronomica della propria città: sul piatto del ferrarese ci sono, guardate bene, sottili fette di pesche e non cubetti come nella persicata bresciana:

   

                                  

  

                                            


Nei secoli successivi al dominio estense si trovano ancora numerose testimonianze, oltre a quelle legate alle esposizioni internazionali. Napoleone Cittadella, in "Notizie amministrative, storiche, artistiche relative a Ferrara" (1868), citava: “Le persicate, o canditi di pesche, sono squisite, e i forestieri ne commettono provviste a Ferrara, specialmente per infermi. Le migliori sono quelle confezionate dal Valeri, e prima d’ora dalle monache di S. Antonio Abate in Polesine che cessarono da tale smercio.”

Si leggono testimonianze dell’esistenza della confettura fino ai primi decenni del ‘900, interrotta con l’avvento della prima guerra mondiale, quando veniva riproposta con successo da alcune famose pasticcerie del centro cittadino. Le più prestigiose erano quella dei Finzi, Il salotto bene della città, esistente vicino all’ingresso del palazzo arcivescovile, la Drogheria Villani, entrambe in quella che allora era chiamata Piazza del Commercio, e il famoso Caffè Folchini (ora Europa), in Corso Giovecca.




   







La ricetta novecentesca è andata perduta, anche se Roberto Longhi, nel suo “Le donne, i cavallier e la cucina ferrarese”, ricorda che era preparata tagliando le pesche a fettine sottili, poi asciugate in forno perché si croccantassero e infine, infilate nello stecchino, spruzzate con gocce di rosolio. 

                                           

 


 

 


                                           



Ma una ricetta originale estense è stata incredibilmente rintracciata in anni recenti in un antico fondo archivistico estense e la possiamo leggere nel libro di Alberto Cenci e Patrizia Cremonini: “Torte, elisir, segreti e prosciutti (Edizioni Antiche Porte 2019).




Si può imparare, perciò, che si realizzava con una procedura, simile a quella della cotognata, che ai nostri giorni risulterebbe una vera impresa! Era decisamente creata grazie al passo lento di altri tempi.. Vale la pena di gustarne la lettura, così con le parole originali:

 

Recipe codogni, spaccali per mezzo senza pelarli e cavagli l'anima, cioè mondali di dentro. Poi ponni li codogni mondi in aqua e falli cuocere in essa al foco. Quando sono ben teneri, levali fuori dell'aqua e ponili a sgocciolare da detta aqua su una gradella di stuppia o cesta.

Quando gli è uscita tutta l'aqua, piglia detti cotogni e pestali nel mortaio e ben pesti che siano fa passare il pesto per setaccio chiaro poi per ogni libra e mezza di detto pisto ponivi libbre 1 di zucaro in polvere ordinario. Il qual zucaro dovrebbe essere chiarificato acciò che la pasta riecha (riesca) più trasparente e bianca. Mischiato che è assieme detto pisto e zucaro, poni di nuovo al foco e falo bolire per lo spatio d'un hore in circa, ma lentamente dimenando la composizione.

Si levi dal foco e si ponga detta composizione in un piato o due, secondo la quantità della robba, e si esponghi al sole; poi successivamente quando comincia a far la crosta sopra si levi col coltello, o cuchiaro, lasciandola pur tuttavia al sole et sempre si vaddi levando di dette croste fin chè dal sole si netta la materia in tal modo ridotta; e di dette croste levate si facia in pastelle, e se ne facia poi in fogliami di pasta sopra tondi (piatti) o altra robba di terra o stagno, a piacimento e si lasci al sole e vi si lascierà per due o tre giorni finchè si possino stacarli dal fondo; poi si rivoltino dette paste e di nuovo per altri tre giorni o secondo il bisogno si ponghino al sole, dovendosi osservare di farli asciugare il più presto possibile, acciò non infortiscano (inacidiscano).

 

Recipe persici non ben maturi; si pelino e faciansi in fette, e si coccino nell'aqua nella forma suddetta dei cotogni, e parimenti si lasciano sguazzare (sgocciolare) poi si pestino ben bene, ovvero s'amachino in modo che riduchino liquidi et in pasta.

Poi per ogni libbra 2 e ½ di detti persici così pesti si ponga libbra 1 di zuccaro chiarificato poi si ponghi tuto assieme, al foco, per lo spazio di un hora circa, e si operi nella stessa forma che si fa per le cotognate.

 

Mi sono arrovellata su questo procedimento tanto che “Recipe persici” mi risuonava in testa come un mantra.. E allora ho deciso di provare, così come prima avevo fatto seguendo la descrizione del Longhi. Saltando o quantomeno semplificando qualche passaggio (il ripetersi del levare le croste create dal sole l’ho sostituito con un molto meno originale ma più realizzabile passaggio nel forno). Volevo provare a concretizzare in qualche modo questo fantomatico spiedino di pesche caramellate, immaginando ma non avendo il rosolio che avrebbe dovuto profumarlo. Non saprò mai se questo era l’aspetto dell’antica persicata, ma Il sapore era buonissimo..





 

https://www.fe.camcom.it/servizi/informazione-economica/pubblicazioni/gli-ultimi-numeri-de-la-pianura/2013-n.-1-la-pianura

 

https://www.estense.com/2016/567857/arriva-la-prima-edizione-della-persicata-perduta/

 

https://www.ilrestodelcarlino.it/ferrara/cronaca/cristoforo-messi-sbugo-e-le-radici-della-cucina-a6252b3c

 


 

 

 

 

 

 

 



sabato 19 novembre 2022

Hatra, l'incanto offeso e difeso

Questo è il racconto di un’appassionante avventura che ho potuto vivere grazie a uno di quegli inaspettati incontri virtuali, resi possibili dal potere del web di annullare le distanze. Da Ferrara al deserto iracheno, tra Baghdad e Mosul, in questo caso. Dal cuore di quella che era l’antica Mesopotamia, sulle antiche vie carovaniere della seta che collegavano l’Oriente con l’Europa, da quella che due millenni fa era un’importante città fortificata, Hatra, mi ha contattato infatti, nella primavera dell’anno scorso, un restauratore, Nikolas Vakalis. Mi ha scritto che vi si trovava in missione, con un gruppo di archeologi e che insieme avevano visto su YouTube un mio piccolo video, sincero e commosso tributo a quello che avevo potuto, da tanto lontano, conoscere di quel magnifico sito. Perciò desiderava farmi sapere che proprio in quel luogo erano iniziati gli interventi di restauro.

 

Il mio racconto deve ora fare un passo indietro. A quando, nel 2015, i media hanno trasmesso i filmati delle devastanti distruzioni di siti archeologici in Iraq da parte degli jihadisti negli anni della loro occupazione, dal 2014 al 2017. Più corretto di ISIS o IS è il termine DAESH, dalle iniziali di un'espressione araba che non contiene l'aggettivo “islamico”, perché non fa coincidere l'islamismo, che è una realtà molteplice e nella maggioranza dei casi pacifica, con quel bellicoso organismo autoproclamatosi Stato.

Era stato angosciante e doloroso vedere in rete i filmati delle loro aggressioni alla splendida Palmira (non si può dimenticare il sacrificio dell’archeologo suo custode, decapitato per difenderla), alle città assire di Ninive e Nimrud e poi alle magnifiche sculture e decorazioni architettoniche facenti parte dei templi di Hatra, quella antichissima e fiorente città, crocevia di storia e cultura e Patrimonio dell'Umanità UNESCO dal 1985. E assistere impotenti ai terribili oltraggi a quegli scrigni di bellezza che, anche se così lontani dall’epoca del loro splendore, ancora incantano fino a stordire, per forza, delicatezza, raffinatezza di forme e colori, rimandi magici e misteriosi che affondano nella mitologia e si perdono nella notte dei tempi.

Mi aveva colpito profondamente un video diffuso dalle stesse bande del califfato nero, che avevano usato templi ed edifici turriti come poligono e campo militare, in cui si mostravano all’opera mentre distruggevano una scultura con violenti colpi di piccone. Quella mensola antropomorfa, un volto femminile enigmatico e affascinante, guardava verso il basso a lato di uno degli imponenti archi, i Grandi Iwan,nel complesso del santuario dedicato a Shamash, il Dio Sole. Ho identificato quel volto come simbolo di tutta Hatra.

 

In quel periodo la Galleria del Carbone mi aveva invitato a partecipare a una collettiva (“Mozzafiato, artisti ferraresi contro la violenza”) ed era per me stato immediato ripensare a quella furia cieca, al raffronto tra momenti di grazia della storia, in cui sconosciuti artisti avevano creato con le loro mani affascinanti opere arrivate fino ai nostri giorni, con altri come quelli, ingrati e distruttivi, in cui la loro arte è diventata vittima inerme delle tenebre della cultura.

Avevo raccolto le poche immagini e le riprese rintracciate allora nel web e desideravo comporre un video. Profondamente rattristata da quelle visioni, avevo immaginato che la scena in cui i frammenti della scultura cadevano a terra potesse per magia poi svolgersi al contrario, ricomponendo quel viso dal fascino misterioso, che aveva patito gli stessi assurdi affronti di tante altre meraviglie a lui attorno.

 

Hatra, in memoriam

 

Quel desiderio di riscatto, che avevo espresso nel video, mi ha spinto in seguito a immaginare una scultura, in occasione di una mia personale a Roma nel giugno 2015. Ho cercato, grazie alle immagini viste in rete, di ricreare quel volto con la creta e, una volta ottenuta la terracotta, su questa ho ricavato un calco di tarlatana, impregnata di colle. Si era formato in questo modo un velo quasi trasparente con le stesse sembianze, che voleva alludere alla sua rinascita, incorporea ma presente e viva.

 

                               "Hatra, in memoriam", terracotta, tarlatana, velo - 2015

 

Diversi anni dopo, quindi, è accaduto questo incontro virtuale assolutamente inatteso con gli archeologi, restauratori e architetti della missione italo-irachena ad Hatra. Un progetto condotto dall’Associazione internazionale per gli Studi del Mediterraneo e dell’Oriente (ISMEO, Roma), in collaborazione con lo State Board of Antiquities and Heritage (SBAH, Iraq), l’Università di Padova e l’Università di Siena e finanziato dalla fondazione svizzera ALIPH (Alleanza Internazionale per la Protezione del Patrimonio nelle aree in conflitto, Ginevra).

Nikolas Vakalis mi ha con felicità comunicato che erano stati rintracciati, recuperati e ricomposti i frammenti della mensola antropomorfa e che questa, a restauro ultimato, sarebbe stata poi riposizionata al suo posto. E così è stato.

 

 

 


Nikolas Vakalis restaura la grande mensola antropomorfa

 

 

                                                        https://www.youtube.com/watch?v=elB957N0Lww

 

Un lieto fine quasi da favola, un piccolo ma grande riscatto dell’umanità su quel gesto infame. Purtroppo molto si è perso per sempre, di quelle antichissime meraviglie, ma almeno Hatra, così ormai chiamo quell’antico volto di calcarenite, dal colore e calore del sole, come avevo desiderato è davvero rinata e tornata al suo posto. 

 

 

 

 

                           Inaugurazione della mostra all' Ambasciata irachena, Roma   

 

    

All’Ambasciata irachena a Roma, che conserva alcuni importanti reperti archeologici, si è appena conclusa un’esposizione fotografica dei lavori di restauro di quell’encomiabile missione. Con mio grande piacere ed onore sono stata invitata ad esporvi quella mia opera, come testimonianza d’amore e come auspicio d’attenzione che da ogni luogo dovrebbe arrivare verso quelle antiche, fragili, preziose testimonianze e sulla terribile e sciagurata devastazione che hanno subìto.

E’ stata per me anche un’importante occasione d’incontro e conoscenza finalmente reale con quelle persone straordinarie, artefici della rinascita di Hatra. Come gli archeologi Stefania Berlioz, un concentrato di forza, entusiasmo e competenza celati in un’esile figura preraffaellita, Massimo Vidale, appassionato direttore della missione, e il giornalista di origine curda Adib Fateh Alì, che ne è il logista e project manager. Purtroppo non era presente a Roma il fautore della sorpresa iniziale, Nikolas Vakalis, perché allora in Medio Oriente. Professionisti, impegnati in continue missioni internazionali, in cui la passione per il proprio lavoro supporta ogni difficoltà e vince ogni temibile rischio, comunque presente. Non è difficile immaginare le fatiche, le enormi distanze compiute, il clima da sopportare senza i conforti tecnologici a cui si è abituati. Eppure in quel “sito meraviglioso”, scrive Massimo Vidale, “tutti i partecipanti al progetto vogliono continuare la ricerca di finanziamenti e coinvolgere un numero crescente di istituzioni e persone, perché ad Hatra ci sono ancora edifici che rischiano di crollare, iscrizioni che stanno scomparendo, centinaia di sculture da ricomporre e restaurare. Ci sarà lavoro per generazioni di restauratori ed archeologi”. 

 

Un’immersione, quindi, quella tra Roma e l’incanto di Hatra, contagiante e stimolante. Era con me, quella mattina, un amico romano, il cantautore Mario Castelnuovo. Queste parole, tratte da un suo brano, paiono evocare e racchiudere le emozioni vissute, come un volo in un favoloso passato:

"So che ogni vero viaggio non ha partenze,
né arrivi, e che, fatalmente, è solo un ritorno".

 

 

Qualche notizia in più:

 

- Il nome Hatra (al-Hadr) in aramaico significava “recinto del Sole” e in arabo “recinto”. Fu fondata attorno al 3° secolo a.C. ed era la più importante tappa verso Palmira e Petra. Dall’antica città partivano almeno sei vie, individuate tuttora dalle foto satellitari. Grazie a sorgenti nelle cavità delle rocce, era, oltre che una città murata, anche un importante luogo sacro, dove s’incrociavano i culti di diverse religioni. “La città imprendibile, ancora oggi protetta dalle 120 torri che scandiscono le sue possenti mura circolari, era sfuggita indenne agli assedi degli imperatori romani.”

 https://www.lastampa.it/cultura/2022/02/26/video/noi_archeologi_italiani_in_missione_a_hatra_per_far_rinascere_il_sito_distrutto_dall_isis-2863463/ 

 

Essendo stata conquistata dai persiani nel 241 d.C., l’intera popolazione fu da questi deportata. Disabitata e saccheggiata, Hatra rimase sola e immobile nel deserto. Questo ha permesso che le sue rovine siano arrivate fino ai giorni nostri, dopo 1700 anni di sonno, come una testimonianza unica di città araba prima dell’avvento dell’Islam e la diffusione del suo culto. Solo nel primo ottocento, avventurosi viaggiatori e archeologi hanno scoperto quindi l’universo intatto di questo piccolo ma straordinario regno al confine tra l’Oriente e il mondo classico. Le fotografie aeree ci fanno scoprire ancora oggi il vasto tessuto urbano (300 ettari) attorno al santuario, racchiuso dalla grande cinta muraria.


 



 


     

 

- Sui muri e sulle pietre di Hatra scorrono più di 500 iscrizioni in aramaico, la lingua semitica che parlava Gesù Cristo, ma in un dialetto tipicamente Hatreno. Quell’alfabeto è composto da 22 lettere, è di tipo consonantico e si legge da destra a sinistra.

 

                                     Particolare di una scritta in aramaico di Hatra

       https://fr.wikipedia.org/wiki/Fichier:Slab_with_Aramaic_Hatran_Inscription_from_Hatra,_Iraq,_Iraq_Museum.jpg 

 

 

- Nel regno di Hatra esisteva una specie di super-cammelli, più resistente alle estreme temperature, ibridi tra cammelli e dromedari. Sono ritratti a lato di un fregio che raffigura il primo Re, Sanatruk I, che aveva favorito questo incrocio delle razze. 

 

                                     https://ilbolive.unipd.it/it/news/hatra-uniconografia-conferma-lesistenza

                                 https://www.cospiratori.it/2022/01/prove-di-ibridazione-del-cammello.html

 

 

 

- Sono state girate ad Hatra, nel 1973, le prime scene del famosissimo 'L'Esorcista'. Il film inizia con il ritrovamento, in un sito archeologico, di una statuetta che raffigura il volto del demonio Pazuzu.


                                                 https://www.youtube.com/watch?v=Su4s7C1bEfY

 

 

- Un’antica leggenda racconta della figlia del re di Hatra, la principessa Nadira. Una storia curiosa, che pare essere la fonte da cui poi ha attinto il famoso racconto della principessa sul pisello, reso popolare da Hans Christian Andersen.

 

                                https://it.frwiki.wiki/wiki/Hatra#La_chute_de_la_ville_et_sa_l%C3%A9gende

 

 

domenica 31 maggio 2020

Gianni Meccia, il primo cantautore








Ferrara dovrebbe ricordare con maggiore orgoglio due “primati”, nel mondo della musica: nell’XI secolo, a Pomposa, Guido monaco ha l’idea di dare un nome alle note, posizionandole sul rigo, iniziando il percorso che porterà al linguaggio universale che è la scrittura musicale, e dopo più o meno un millennio proprio per un ferrarese viene coniato il termine “cantautore”. Una parola che usiamo tutti e che pare sempre esistita, invece due termini sono stati uniti in uno solo da Vincenzo Micocci ed Ennio Melis, celebri discografici italiani. Ha raccontato Melis: "Un giorno Micocci, il direttore artistico, mi dice: 'Questi cantano però sono anche autori' e io: 'Chiamiamoli cantautori' ".
Un omaggio appunto per un musicista nato in questa città, Gianni Meccia, in occasione del lancio del suo 45 giri "Il barattolo", nel 1960. 



Nato a Ferrara il 2 giugno del 1931 (gli auguriamo quindi buon compleanno!) da madre ferrarese e padre molisano, Meccia passa la sua giovinezza qui in città.
 La sua è una famiglia di musicisti: il nonno organista, le sorelle insegnano pianoforte. Mentre lui, da ragazzo, è attratto dal teatro "leggero" e le sue prime esperienze artistiche sono come attore e regista nelle compagnie universitarie della città, tra la fine degli anni ’40 e gli inizi dei ’50. Insieme all’amico Gianni Vitali, anch’egli ferrarese, compone musiche e sceneggiature che fanno nascere alcune Riviste musicali. Di queste "Effemeridi studentesche" possiamo gustare le locandine, i divertenti testi, i bozzetti dei costumi ed alcune fotografie di momenti di scena, grazie a Valeria Vitali (anch’essa attrice per passione), che li ha conservati tra i ricordi paterni.



 




E così, andando a vedere a teatro spettacoli di Ugo Tognazzi e Gino Bramieri, nel giovane Meccia si fa chiaro il desiderio di intraprendere davvero quella strada e nasce la convinzione di partire per Roma per cercare di realizzarlo. Abbandonando questa sua piccola città, che appunto gli "stava stretta". L’amicizia con Vitali (che non l'ha seguito perché a Ferrara aveva già lavoro e fidanzata) rimane in qualche lettera, in cui racconta le sue prime esperienze e progetti importanti, come l’ipotesi di una sua piccola partecipazione a film di Antonioni e a “La donna del fiume” di Soldati..  


 

       



 Certamente le sue presenze come attore saranno in vari film "musicarelli", un genere di grande successo negli anni sessanta, dove i protagonisti erano cantanti di fama con i loro più recenti album discografici. Tra questi “Nel blu dipinto di blu” (con Domenico Modugno, Vittorio de Sica, Giovanna Ralli, Franco Migliacci),  “Urlatori alla sbarra” (con Mina, Adriano Celentano, Umberto Bindi, Lino Banfi e persino Chet Baker), in cui recita in vivaci ruoli di personaggi delle storie raccontate,
o nella parte di se stesso, come in “Io bacio tu baci” (con Mina, Umberto Orsini, Celentano, Tony Renis, Peppino di Capri e molti altri nomi conosciuti).




I primi anni romani non sono facili ed è in quel periodo che si trova ad avere tra le mani una chitarra e impara da sé a suonarla. L’unico della famiglia che non aveva studiato la musica ”seria”, da autodidatta ma con il colpo d’ali che l’arte come dono naturale a volte regala, inizia ad essere un musicista. Nascono così le prime canzoni, nel ’59, dai testi ironici e surreali, come “Odio tutte le vecchie signore” (ed altre meno note: ”Non bisogna mangiare i pedoni”, “Anche le guardie possono perdere l’equilibrio”, come racconta in una lunga intervista radiofonica di alcuni anni fa.
Ospite del famoso programma “Il Musichiere”, canta quel primo brano che desta scalpore e scandalo perché troppo dissonante e in anticipo rispetto a quel tempo. Ma che è delizioso da rigustare adesso:
                                                                               

            "Odio tutte le vecchie signore"
                             




Finché, entrato grazie a Vincenzo Micocci alla RCA, segue i suoi consigli e inizia a comporre canzoni, come le straordinarie “Il barattolo” e poi “Il pullover”, meno graffianti ma certamente sempre originalissime e quantomeno insolite per i soggetti protagonisti. E sono subito indiscussi successi. Ad avere l’idea di creare il suono del vero barattolo che rotola, rimbalzando e sbattendo qua e là, è il grandissimo Ennio Morricone, qui al suo primo arrangiamento, l’inizio di una lunghissima e straordinaria serie di composizioni.
"Il barattolo"

A conferma della popolarità che aveva “Il barattolo”, va ricordato che Florestano Vancini  lo sceglie per accompagnare le scene finali del film “La lunga notte del ‘43”, quando uno dei protagonisti ritorna di passaggio in città nell’estate del ’60.
Rendendo indimenticabile e struggente il contrasto tra il dramma passato e la leggerezza dolce e malinconica del brano, segno di quel presente.


"Il barattolo" ne "La lunga notte del '43"
                                                                               

                                                                  
 

Risentiamo anche “Il pullover”, canzone morbida e avvolgente proprio come il maglione che pare ridonare il calore dell'amata e che Meccia racconta di aver ironicamente concepito quando un gregge di pecore attraversava la strada davanti alla sua auto..
"Il pullover"

In quegli anni, oltre a creare per sé scrive anche per altri cantanti, sia come paroliere che come compositore. Sarà lungo l’elenco: per Domenico Modugno ” Non restare fra gli angeli”, per Mina “Folle banderuola”, “Il plip” per Rita Pavone, “Uno dei mods” per Ricky Shayne, "Se perdo anche te" per Gianni Morandi e molti altri.
Scrive le parole dell’incredibile seppur poco ricordato “Concerto per Patty”, una lunga suite di Patty Pravo.
"Concerto per Patty"

Ma il suo più grande successo come autore è però indiscutibilmente grazie allo splendido testo da lui composto per “Il mondo”, reso famosissimo da Jimmy Fontana, che lo canta e che è conosciuto davvero in tutto il pianeta, se oltre centocinquanta sono le versioni di altrettanti paesi.

Sicuramente molto meno nota, ma una vera curiosità, è una canzone nata in collaborazione con Ugo Tognazzi, in cui l’attore ha scritto il testo e Meccia la musica. Apparsa anche a Sanremo, cantata da Fausto Cigliano.
"Cose inutili"


Dopo anni vissuti come cantautore, attore, autore, compositore, nel ’70 l’artista lascia spazio al talent scout, diventa discografico e decide di fondare con  Bruno Zambrini una casa di produzione, la Pull (forse grazie al successo de Il pullover) che tra gli altri fa nascere anche il gruppo musicale pop “I cugini di campagna”, dove si svela ancora una volta il suo gusto ironico nella scelta del nome. Ma continua talvolta a comporre e ritorna a salire sul palcoscenico televisivo, come nei lunghi anni (1984-2003) in cui, con Jimmy Fontana, Nico Fidenco e Riccardo Del Turco si era creato il gruppo I Super 4.




Alcuni anni fa ho avuto il grande piacere di poter dialogare lungamente con lui, in una telefonata. Ero a Roma e intimamente speravo anche di poterlo incontrare, ma non ho avuto il coraggio di chiederglielo. Approfittando della lontana amicizia che c’era stata tra lui e i miei genitori e lo stesso Gianni Vitali, ho accennato a questo scritto che desideravo già da allora di dedicargli. Nella consapevolezza che sarebbe stato un piccolo ma sentito omaggio ad un grande artista, che ha saputo rinnovare la musica leggera italiana degli anni '60 e che la nostra città distrattamente non celebra quanto dovrebbe.
Mi ha commosso scoprire quanto ricordasse con affetto i suoi amici ferraresi ed è stato prezioso il suo racconto di vari aneddoti: di quando il giovane Vancini lo avesse quasi invidiato per il suo coraggio di abbandonare la città natia per seguire il suo sogno, e di quanto questo fosse stato poi lo stimolo per seguire egli stesso il proprio, divenendo il famoso regista. Dell’amicizia con Carlo Rambaldi, poi dei suoi ritorni in città solo per salutare le sorelle, fino a quando erano in vita, infine la vendita della casa di famiglia. Da allora Ferrara non è più stata una meta del cuore, se non per un saluto a Beatrice Virgili, figlia di una sorella. Che ringrazio, perché in questi giorni mi ha dato buone notizie dell'amatissimo zio, che lascia ogni tanto la sua casa romana dove vive con la moglie, molto più giovane di lui (ha una figlia e una nipotina) per vacanze marine o alpine.

Ormai sono lontani quei giorni in cui, nei primi anni ’60, arrivava con la sua Maserati azzurrina targata Campobasso in città e la parcheggiava davanti alla casa di via Carlo Mayr 170, per andare a salutare la mamma e le sorelle. E intanto i ragazzini che guardavano la televisione al bar dall’altro lato della strada, quello di fianco al Crist ad Bunòn (allora ben pochi avevano la tv in casa), si affacciavano sulla via e dicevano compiaciuti: “A gh’è Meccia a Frara!”









I giovani Gianni Meccia e Gianni Vitali,  attori e co-registi di varie riviste musicali ferraresi, tra la fine degli anni ‘40 e i primi del ’50







Probabilmente scattata al giardino di Palazzo Roverella, dove si ballava con l'orchestra nelle serate estive, in questa immagine appare Meccia sorridente a lato di due eleganti signorine, mentre sullo sfondo si intravedono i musicisti.


                                                                              



 La locandina di una delle Riviste musicali studentesche ferraresi


  



Un’altra intervista radiofonica, oltre a quella già citata più sopra, è raccolta in questo archivio teche RAI, dove è inserito tra gli allora più rappresentativi cantautori italiani


https://it.wikipedia.org/wiki/Gianni_Meccia