sabato 19 novembre 2022

Hatra, l'incanto offeso e difeso

Questo è il racconto di un’appassionante avventura che ho potuto vivere grazie a uno di quegli inaspettati incontri virtuali, resi possibili dal potere del web di annullare le distanze. Da Ferrara al deserto iracheno, tra Baghdad e Mosul, in questo caso. Dal cuore di quella che era l’antica Mesopotamia, sulle antiche vie carovaniere della seta che collegavano l’Oriente con l’Europa, da quella che due millenni fa era un’importante città fortificata, Hatra, mi ha contattato infatti, nella primavera dell’anno scorso, un restauratore, Nikolas Vakalis. Mi ha scritto che vi si trovava in missione, con un gruppo di archeologi e che insieme avevano visto su YouTube un mio piccolo video, sincero e commosso tributo a quello che avevo potuto, da tanto lontano, conoscere di quel magnifico sito. Perciò desiderava farmi sapere che proprio in quel luogo erano iniziati gli interventi di restauro.

 

Il mio racconto deve ora fare un passo indietro. A quando, nel 2015, i media hanno trasmesso i filmati delle devastanti distruzioni di siti archeologici in Iraq da parte degli jihadisti negli anni della loro occupazione, dal 2014 al 2017. Più corretto di ISIS o IS è il termine DAESH, dalle iniziali di un'espressione araba che non contiene l'aggettivo “islamico”, perché non fa coincidere l'islamismo, che è una realtà molteplice e nella maggioranza dei casi pacifica, con quel bellicoso organismo autoproclamatosi Stato.

Era stato angosciante e doloroso vedere in rete i filmati delle loro aggressioni alla splendida Palmira (non si può dimenticare il sacrificio dell’archeologo suo custode, decapitato per difenderla), alle città assire di Ninive e Nimrud e poi alle magnifiche sculture e decorazioni architettoniche facenti parte dei templi di Hatra, quella antichissima e fiorente città, crocevia di storia e cultura e Patrimonio dell'Umanità UNESCO dal 1985. E assistere impotenti ai terribili oltraggi a quegli scrigni di bellezza che, anche se così lontani dall’epoca del loro splendore, ancora incantano fino a stordire, per forza, delicatezza, raffinatezza di forme e colori, rimandi magici e misteriosi che affondano nella mitologia e si perdono nella notte dei tempi.

Mi aveva colpito profondamente un video diffuso dalle stesse bande del califfato nero, che avevano usato templi ed edifici turriti come poligono e campo militare, in cui si mostravano all’opera mentre distruggevano una scultura con violenti colpi di piccone. Quella mensola antropomorfa, un volto femminile enigmatico e affascinante, guardava verso il basso a lato di uno degli imponenti archi, i Grandi Iwan,nel complesso del santuario dedicato a Shamash, il Dio Sole. Ho identificato quel volto come simbolo di tutta Hatra.

 

In quel periodo la Galleria del Carbone mi aveva invitato a partecipare a una collettiva (“Mozzafiato, artisti ferraresi contro la violenza”) ed era per me stato immediato ripensare a quella furia cieca, al raffronto tra momenti di grazia della storia, in cui sconosciuti artisti avevano creato con le loro mani affascinanti opere arrivate fino ai nostri giorni, con altri come quelli, ingrati e distruttivi, in cui la loro arte è diventata vittima inerme delle tenebre della cultura.

Avevo raccolto le poche immagini e le riprese rintracciate allora nel web e desideravo comporre un video. Profondamente rattristata da quelle visioni, avevo immaginato che la scena in cui i frammenti della scultura cadevano a terra potesse per magia poi svolgersi al contrario, ricomponendo quel viso dal fascino misterioso, che aveva patito gli stessi assurdi affronti di tante altre meraviglie a lui attorno.

 

Hatra, in memoriam

 

Quel desiderio di riscatto, che avevo espresso nel video, mi ha spinto in seguito a immaginare una scultura, in occasione di una mia personale a Roma nel giugno 2015. Ho cercato, grazie alle immagini viste in rete, di ricreare quel volto con la creta e, una volta ottenuta la terracotta, su questa ho ricavato un calco di tarlatana, impregnata di colle. Si era formato in questo modo un velo quasi trasparente con le stesse sembianze, che voleva alludere alla sua rinascita, incorporea ma presente e viva.

 

                               "Hatra, in memoriam", terracotta, tarlatana, velo - 2015

 

Diversi anni dopo, quindi, è accaduto questo incontro virtuale assolutamente inatteso con gli archeologi, restauratori e architetti della missione italo-irachena ad Hatra. Un progetto condotto dall’Associazione internazionale per gli Studi del Mediterraneo e dell’Oriente (ISMEO, Roma), in collaborazione con lo State Board of Antiquities and Heritage (SBAH, Iraq), l’Università di Padova e l’Università di Siena e finanziato dalla fondazione svizzera ALIPH (Alleanza Internazionale per la Protezione del Patrimonio nelle aree in conflitto, Ginevra).

Nikolas Vakalis mi ha con felicità comunicato che erano stati rintracciati, recuperati e ricomposti i frammenti della mensola antropomorfa e che questa, a restauro ultimato, sarebbe stata poi riposizionata al suo posto. E così è stato.

 

 

 


Nikolas Vakalis restaura la grande mensola antropomorfa

 

 

                                                        https://www.youtube.com/watch?v=elB957N0Lww

 

Un lieto fine quasi da favola, un piccolo ma grande riscatto dell’umanità su quel gesto infame. Purtroppo molto si è perso per sempre, di quelle antichissime meraviglie, ma almeno Hatra, così ormai chiamo quell’antico volto di calcarenite, dal colore e calore del sole, come avevo desiderato è davvero rinata e tornata al suo posto. 

 

 

 

 

                           Inaugurazione della mostra all' Ambasciata irachena, Roma   

 

    

All’Ambasciata irachena a Roma, che conserva alcuni importanti reperti archeologici, si è appena conclusa un’esposizione fotografica dei lavori di restauro di quell’encomiabile missione. Con mio grande piacere ed onore sono stata invitata ad esporvi quella mia opera, come testimonianza d’amore e come auspicio d’attenzione che da ogni luogo dovrebbe arrivare verso quelle antiche, fragili, preziose testimonianze e sulla terribile e sciagurata devastazione che hanno subìto.

E’ stata per me anche un’importante occasione d’incontro e conoscenza finalmente reale con quelle persone straordinarie, artefici della rinascita di Hatra. Come gli archeologi Stefania Berlioz, un concentrato di forza, entusiasmo e competenza celati in un’esile figura preraffaellita, Massimo Vidale, appassionato direttore della missione, e il giornalista di origine curda Adib Fateh Alì, che ne è il logista e project manager. Purtroppo non era presente a Roma il fautore della sorpresa iniziale, Nikolas Vakalis, perché allora in Medio Oriente. Professionisti, impegnati in continue missioni internazionali, in cui la passione per il proprio lavoro supporta ogni difficoltà e vince ogni temibile rischio, comunque presente. Non è difficile immaginare le fatiche, le enormi distanze compiute, il clima da sopportare senza i conforti tecnologici a cui si è abituati. Eppure in quel “sito meraviglioso”, scrive Massimo Vidale, “tutti i partecipanti al progetto vogliono continuare la ricerca di finanziamenti e coinvolgere un numero crescente di istituzioni e persone, perché ad Hatra ci sono ancora edifici che rischiano di crollare, iscrizioni che stanno scomparendo, centinaia di sculture da ricomporre e restaurare. Ci sarà lavoro per generazioni di restauratori ed archeologi”. 

 

Un’immersione, quindi, quella tra Roma e l’incanto di Hatra, contagiante e stimolante. Era con me, quella mattina, un amico romano, il cantautore Mario Castelnuovo. Queste parole, tratte da un suo brano, paiono evocare e racchiudere le emozioni vissute, come un volo in un favoloso passato:

"So che ogni vero viaggio non ha partenze,
né arrivi, e che, fatalmente, è solo un ritorno".

 

 

Qualche notizia in più:

 

- Il nome Hatra (al-Hadr) in aramaico significava “recinto del Sole” e in arabo “recinto”. Fu fondata attorno al 3° secolo a.C. ed era la più importante tappa verso Palmira e Petra. Dall’antica città partivano almeno sei vie, individuate tuttora dalle foto satellitari. Grazie a sorgenti nelle cavità delle rocce, era, oltre che una città murata, anche un importante luogo sacro, dove s’incrociavano i culti di diverse religioni. “La città imprendibile, ancora oggi protetta dalle 120 torri che scandiscono le sue possenti mura circolari, era sfuggita indenne agli assedi degli imperatori romani.”

 https://www.lastampa.it/cultura/2022/02/26/video/noi_archeologi_italiani_in_missione_a_hatra_per_far_rinascere_il_sito_distrutto_dall_isis-2863463/ 

 

Essendo stata conquistata dai persiani nel 241 d.C., l’intera popolazione fu da questi deportata. Disabitata e saccheggiata, Hatra rimase sola e immobile nel deserto. Questo ha permesso che le sue rovine siano arrivate fino ai giorni nostri, dopo 1700 anni di sonno, come una testimonianza unica di città araba prima dell’avvento dell’Islam e la diffusione del suo culto. Solo nel primo ottocento, avventurosi viaggiatori e archeologi hanno scoperto quindi l’universo intatto di questo piccolo ma straordinario regno al confine tra l’Oriente e il mondo classico. Le fotografie aeree ci fanno scoprire ancora oggi il vasto tessuto urbano (300 ettari) attorno al santuario, racchiuso dalla grande cinta muraria.


 



 


     

 

- Sui muri e sulle pietre di Hatra scorrono più di 500 iscrizioni in aramaico, la lingua semitica che parlava Gesù Cristo, ma in un dialetto tipicamente Hatreno. Quell’alfabeto è composto da 22 lettere, è di tipo consonantico e si legge da destra a sinistra.

 

                                     Particolare di una scritta in aramaico di Hatra

       https://fr.wikipedia.org/wiki/Fichier:Slab_with_Aramaic_Hatran_Inscription_from_Hatra,_Iraq,_Iraq_Museum.jpg 

 

 

- Nel regno di Hatra esisteva una specie di super-cammelli, più resistente alle estreme temperature, ibridi tra cammelli e dromedari. Sono ritratti a lato di un fregio che raffigura il primo Re, Sanatruk I, che aveva favorito questo incrocio delle razze. 

 

                                     https://ilbolive.unipd.it/it/news/hatra-uniconografia-conferma-lesistenza

                                 https://www.cospiratori.it/2022/01/prove-di-ibridazione-del-cammello.html

 

 

 

- Sono state girate ad Hatra, nel 1973, le prime scene del famosissimo 'L'Esorcista'. Il film inizia con il ritrovamento, in un sito archeologico, di una statuetta che raffigura il volto del demonio Pazuzu.


                                                 https://www.youtube.com/watch?v=Su4s7C1bEfY

 

 

- Un’antica leggenda racconta della figlia del re di Hatra, la principessa Nadira. Una storia curiosa, che pare essere la fonte da cui poi ha attinto il famoso racconto della principessa sul pisello, reso popolare da Hans Christian Andersen.

 

                                https://it.frwiki.wiki/wiki/Hatra#La_chute_de_la_ville_et_sa_l%C3%A9gende

 

 

domenica 31 maggio 2020

Gianni Meccia, il primo cantautore








Ferrara dovrebbe ricordare con maggiore orgoglio due “primati”, nel mondo della musica: nell’XI secolo, a Pomposa, Guido monaco ha l’idea di dare un nome alle note, posizionandole sul rigo, iniziando il percorso che porterà al linguaggio universale che è la scrittura musicale, e dopo più o meno un millennio proprio per un ferrarese viene coniato il termine “cantautore”. Una parola che usiamo tutti e che pare sempre esistita, invece due termini sono stati uniti in uno solo da Vincenzo Micocci ed Ennio Melis, celebri discografici italiani. Ha raccontato Melis: "Un giorno Micocci, il direttore artistico, mi dice: 'Questi cantano però sono anche autori' e io: 'Chiamiamoli cantautori' ".
Un omaggio appunto per un musicista nato in questa città, Gianni Meccia, in occasione del lancio del suo 45 giri "Il barattolo", nel 1960. 



Nato a Ferrara il 2 giugno del 1931 (gli auguriamo quindi buon compleanno!) da madre ferrarese e padre molisano, Meccia passa la sua giovinezza qui in città.
 La sua è una famiglia di musicisti: il nonno organista, le sorelle insegnano pianoforte. Mentre lui, da ragazzo, è attratto dal teatro "leggero" e le sue prime esperienze artistiche sono come attore e regista nelle compagnie universitarie della città, tra la fine degli anni ’40 e gli inizi dei ’50. Insieme all’amico Gianni Vitali, anch’egli ferrarese, compone musiche e sceneggiature che fanno nascere alcune Riviste musicali. Di queste "Effemeridi studentesche" possiamo gustare le locandine, i divertenti testi, i bozzetti dei costumi ed alcune fotografie di momenti di scena, grazie a Valeria Vitali (anch’essa attrice per passione), che li ha conservati tra i ricordi paterni.



 




E così, andando a vedere a teatro spettacoli di Ugo Tognazzi e Gino Bramieri, nel giovane Meccia si fa chiaro il desiderio di intraprendere davvero quella strada e nasce la convinzione di partire per Roma per cercare di realizzarlo. Abbandonando questa sua piccola città, che appunto gli "stava stretta". L’amicizia con Vitali (che non l'ha seguito perché a Ferrara aveva già lavoro e fidanzata) rimane in qualche lettera, in cui racconta le sue prime esperienze e progetti importanti, come l’ipotesi di una sua piccola partecipazione a film di Antonioni e a “La donna del fiume” di Soldati..  


 

       



 Certamente le sue presenze come attore saranno in vari film "musicarelli", un genere di grande successo negli anni sessanta, dove i protagonisti erano cantanti di fama con i loro più recenti album discografici. Tra questi “Nel blu dipinto di blu” (con Domenico Modugno, Vittorio de Sica, Giovanna Ralli, Franco Migliacci),  “Urlatori alla sbarra” (con Mina, Adriano Celentano, Umberto Bindi, Lino Banfi e persino Chet Baker), in cui recita in vivaci ruoli di personaggi delle storie raccontate,
o nella parte di se stesso, come in “Io bacio tu baci” (con Mina, Umberto Orsini, Celentano, Tony Renis, Peppino di Capri e molti altri nomi conosciuti).




I primi anni romani non sono facili ed è in quel periodo che si trova ad avere tra le mani una chitarra e impara da sé a suonarla. L’unico della famiglia che non aveva studiato la musica ”seria”, da autodidatta ma con il colpo d’ali che l’arte come dono naturale a volte regala, inizia ad essere un musicista. Nascono così le prime canzoni, nel ’59, dai testi ironici e surreali, come “Odio tutte le vecchie signore” (ed altre meno note: ”Non bisogna mangiare i pedoni”, “Anche le guardie possono perdere l’equilibrio”, come racconta in una lunga intervista radiofonica di alcuni anni fa.
Ospite del famoso programma “Il Musichiere”, canta quel primo brano che desta scalpore e scandalo perché troppo dissonante e in anticipo rispetto a quel tempo. Ma che è delizioso da rigustare adesso:
                                                                               

            "Odio tutte le vecchie signore"
                             




Finché, entrato grazie a Vincenzo Micocci alla RCA, segue i suoi consigli e inizia a comporre canzoni, come le straordinarie “Il barattolo” e poi “Il pullover”, meno graffianti ma certamente sempre originalissime e quantomeno insolite per i soggetti protagonisti. E sono subito indiscussi successi. Ad avere l’idea di creare il suono del vero barattolo che rotola, rimbalzando e sbattendo qua e là, è il grandissimo Ennio Morricone, qui al suo primo arrangiamento, l’inizio di una lunghissima e straordinaria serie di composizioni.
"Il barattolo"

A conferma della popolarità che aveva “Il barattolo”, va ricordato che Florestano Vancini  lo sceglie per accompagnare le scene finali del film “La lunga notte del ‘43”, quando uno dei protagonisti ritorna di passaggio in città nell’estate del ’60.
Rendendo indimenticabile e struggente il contrasto tra il dramma passato e la leggerezza dolce e malinconica del brano, segno di quel presente.


"Il barattolo" ne "La lunga notte del '43"
                                                                               

                                                                  
 

Risentiamo anche “Il pullover”, canzone morbida e avvolgente proprio come il maglione che pare ridonare il calore dell'amata e che Meccia racconta di aver ironicamente concepito quando un gregge di pecore attraversava la strada davanti alla sua auto..
"Il pullover"

In quegli anni, oltre a creare per sé scrive anche per altri cantanti, sia come paroliere che come compositore. Sarà lungo l’elenco: per Domenico Modugno ” Non restare fra gli angeli”, per Mina “Folle banderuola”, “Il plip” per Rita Pavone, “Uno dei mods” per Ricky Shayne, "Se perdo anche te" per Gianni Morandi e molti altri.
Scrive le parole dell’incredibile seppur poco ricordato “Concerto per Patty”, una lunga suite di Patty Pravo.
"Concerto per Patty"

Ma il suo più grande successo come autore è però indiscutibilmente grazie allo splendido testo da lui composto per “Il mondo”, reso famosissimo da Jimmy Fontana, che lo canta e che è conosciuto davvero in tutto il pianeta, se oltre centocinquanta sono le versioni di altrettanti paesi.

Sicuramente molto meno nota, ma una vera curiosità, è una canzone nata in collaborazione con Ugo Tognazzi, in cui l’attore ha scritto il testo e Meccia la musica. Apparsa anche a Sanremo, cantata da Fausto Cigliano.
"Cose inutili"


Dopo anni vissuti come cantautore, attore, autore, compositore, nel ’70 l’artista lascia spazio al talent scout, diventa discografico e decide di fondare con  Bruno Zambrini una casa di produzione, la Pull (forse grazie al successo de Il pullover) che tra gli altri fa nascere anche il gruppo musicale pop “I cugini di campagna”, dove si svela ancora una volta il suo gusto ironico nella scelta del nome. Ma continua talvolta a comporre e ritorna a salire sul palcoscenico televisivo, come nei lunghi anni (1984-2003) in cui, con Jimmy Fontana, Nico Fidenco e Riccardo Del Turco si era creato il gruppo I Super 4.




Alcuni anni fa ho avuto il grande piacere di poter dialogare lungamente con lui, in una telefonata. Ero a Roma e intimamente speravo anche di poterlo incontrare, ma non ho avuto il coraggio di chiederglielo. Approfittando della lontana amicizia che c’era stata tra lui e i miei genitori e lo stesso Gianni Vitali, ho accennato a questo scritto che desideravo già da allora di dedicargli. Nella consapevolezza che sarebbe stato un piccolo ma sentito omaggio ad un grande artista, che ha saputo rinnovare la musica leggera italiana degli anni '60 e che la nostra città distrattamente non celebra quanto dovrebbe.
Mi ha commosso scoprire quanto ricordasse con affetto i suoi amici ferraresi ed è stato prezioso il suo racconto di vari aneddoti: di quando il giovane Vancini lo avesse quasi invidiato per il suo coraggio di abbandonare la città natia per seguire il suo sogno, e di quanto questo fosse stato poi lo stimolo per seguire egli stesso il proprio, divenendo il famoso regista. Dell’amicizia con Carlo Rambaldi, poi dei suoi ritorni in città solo per salutare le sorelle, fino a quando erano in vita, infine la vendita della casa di famiglia. Da allora Ferrara non è più stata una meta del cuore, se non per un saluto a Beatrice Virgili, figlia di una sorella. Che ringrazio, perché in questi giorni mi ha dato buone notizie dell'amatissimo zio, che lascia ogni tanto la sua casa romana dove vive con la moglie, molto più giovane di lui (ha una figlia e una nipotina) per vacanze marine o alpine.

Ormai sono lontani quei giorni in cui, nei primi anni ’60, arrivava con la sua Maserati azzurrina targata Campobasso in città e la parcheggiava davanti alla casa di via Carlo Mayr 170, per andare a salutare la mamma e le sorelle. E intanto i ragazzini che guardavano la televisione al bar dall’altro lato della strada, quello di fianco al Crist ad Bunòn (allora ben pochi avevano la tv in casa), si affacciavano sulla via e dicevano compiaciuti: “A gh’è Meccia a Frara!”









I giovani Gianni Meccia e Gianni Vitali,  attori e co-registi di varie riviste musicali ferraresi, tra la fine degli anni ‘40 e i primi del ’50







Probabilmente scattata al giardino di Palazzo Roverella, dove si ballava con l'orchestra nelle serate estive, in questa immagine appare Meccia sorridente a lato di due eleganti signorine, mentre sullo sfondo si intravedono i musicisti.


                                                                              



 La locandina di una delle Riviste musicali studentesche ferraresi


  



Un’altra intervista radiofonica, oltre a quella già citata più sopra, è raccolta in questo archivio teche RAI, dove è inserito tra gli allora più rappresentativi cantautori italiani


https://it.wikipedia.org/wiki/Gianni_Meccia





















domenica 3 giugno 2018

Franco Farina, i miei ricordi

                                          

                                                                                                     Nella sua casa in Viale Cavour, 2014 


Non mi accompagna solamente l’umana malinconia per la scomparsa di una persona la cui amicizia ha attraversato la mia vita, ma anche la consapevolezza, com’è per tutti, che quella era davvero una persona straordinaria. Il cui enorme bagaglio donato alla città in primis, ma con lei all’intero mondo dell’arte, sarà per sempre un capitale di cultura che ha dato e darà frutti.

 Col suo grande carisma, per me da ragazza è stato un vero faro attrattivo.  A volte lo andavo a trovare a casa sua, in fondo a Corso Ercole d’Este. Gli avevo dato il ruolo di confidente.. illuminato, come mi è stato anche, negli stessi anni, Toni Cibotto.
Sono emozioni e ricordi troppo lontani, ma comunque indimenticabili.
 Purtroppo anche Cibotto, che amava Ferrara e per la quale aveva creato il Premio Estense, e il mio amatissimo amico Carlo Bassi, poi, ci hanno lasciati orfani della loro luce e profonda intelligenza.

Conobbi Franco Farina alla fine del corso biennale d’intaglio e restauro de legno, organizzato dalla Regione. Era il 1980, avevo 25 anni. Un esame pro forma per concludere quella esperienza formativa che avevo con grande passione vissuto, che si svolgeva presentando alla commissione, di cui lui era presidente, qualche lavoro uscito da quella insolita officina. Non ricordo cosa portai, né cosa mi disse. Non ho dimenticato però un momento divertente: quando vide un oggetto finto antico, creato da un altro allievo (cornice, forse?), sentenziò, in dialetto: “ Mi, a quei ac fa chi ninul lì, al di d’inquó, ac taiarìa il man!” L’arte contemporanea era ben lungi da ciò che ci era stato insegnato..
Poi però fece fare, ad una delle ragazze con cui aprii poco dopo la bottega Cose di legno, diverse appliqués scolpite, dorate e antichizzate, che appese nelle sale del museo Boldini, nel Palazzo Massari. Luogo a cui seppe, con stretegica ed intelligente intuizione, dare un’aria ammaliante, tra i ricchi arredi e le stoffe damascate (che sole meriterebbero un racconto), per enfatizzare le magnificenti opere di Boldini. In questo modo sapendo ben distinguere, con la lungimiranza che gli era propria, dove e come collocare la contemporaneità e il passato.
Ricordo bene i banchetti, decine di tavolini apparecchiati, che si svolgevano nel salone d'onore al piano nobile, pur traballante, di Palazzo Massari. Cosa mai vista prima di allora e che ovviamente andò in disuso col passaggio al successivo direttore.. E’ stato anticipatore di decenni anche in questo: i rinfreschi dentro i luoghi d'arte. Corre il pensiero, inevitabilmente, alle attuali polemiche di una parte dell'"intellighenzia" culturale, che s’indigna per l'apertura offerta negli ultimi anni dal Mibact a sponsor elargenti fior di quattrini: invasioni pacifiche di musei o altri luoghi d'arte per eventi, in cambio appunto di un lauto prezzo. Farina l’aveva già inventata quarant’anni fa, quell’anticonvenzionale “contaminazione", parola adesso tanto di moda.
Così come erano grandiose feste le inaugurazioni delle grandi mostre dei Diamanti, con i tavoli imbanditi per ricchi aperitivi nell’androne del Palazzo, affollate da ospiti illustri ed estrosi personaggi. Riflessi vivaci e stimolanti di quella irripetituta stagione in cui Ferrara era improvvisamente, grazie a lui, diventata uno dei luoghi all’avanguardia nel mondo della cultura e dell’arte contemporanea.

Non ho vissuto abbastanza, e me ne rammarico moltissimo, gli eccezionali incontri e le performances da Lola e Franco offerti al pubblico nella sala Polivalente. Forse ero troppo giovane per capire quella stagione straordinaria e importantissima che Ferrara ha vissuto grazie a loro. Solo alcune volte ho assaporato il piacere di trovarmi in quel delizioso teatro di legno e, come tutti, non lo posso dimenticare e avrei tanto sperato di vederlo riapparire.

Ricordo bene l’entusiasmo e la passione che trasparivano dalle parole di Franco per l’altra creatura che volle con tutte le sue forze e in cui credeva moltissimo: il Museo documentario della Metafisica, primo museo virtuale della storia. Mentre accompagnavo, come guida turistica, le mogli dei medici ferraresi alla scoperta della città, lo incontrammo nel museo appena nato e lui ce l’illustrò orgogliosamente: “Chi vuole sapere tutto della Metafisica deve passare per Ferrara”, disse. 

 Sappiamo tutti che la successiva totale sparizione di queste due realtà furono per lui causa di grande delusione..

                 Registrazione audio di Farina che descrive il Museo Documentario della Metafisica

Negli anni Farina è venuto affettuosamente ad ogni mia mostra, ed era un dono importante e graditissimo. A volte veniva con l'altro Franco, Don Patruno. Una coppia eccezionale, dall'intrigante fucina di battute, somma delle loro "antenne"(come Farina le definiva) che facevano loro cogliere con lucida immediata analisi l'essenza delle cose. E magari svolgere in una risata un pensiero di malinconia..

                                                        Slideshow di alcune immagini di inaugurazioni di mostre


Per festeggiare i suoi ottanta anni, nel 2008 ci fu un saluto corale nel salone di Palazzo Roverella, al Circolo Negozianti. Ero presente e ho rubato un piccolo frammento video, proprio quello in cui dice quella frase simpaticissima: temeva che l'aver messo insieme più di novecento mostre più che una passione fosse il segno di una nevrosi..

                                                                    Farina conclude la festa per i 80 anni



Qualche anno fa lo andai a intervistare con la telecamera per un progetto che lui apprezzó molto: la raccolta di una serie di racconti e di ricordi di chi aveva conosciuto Anzulon Aguiari (pittore e attore ferrarese, fondatore del Ludovico, che aveva creato un particolarissimo ed ironico cenacolo di amici, tra cui appunto Franco e Lola, nella sua casa in Via Carmelino).
Era già affaticato dagli anni e parlava purtroppo di come dividere e destinare le sue cose, i tanti libri ma soprattutto l’importantissima raccolta di opere d’arte, ricevute in dono dai grandi artisti che avevano esposto, grazie a lui, ai Diamanti. Voleva chiudere il suo rapporto col mondo avendo tutto previsto e sistemato. Nonostante una velata malinconia, la sua verve usciva come sempre nelle ironiche battute, la sua illuminata visione delle cose era riconoscibile come un tempo.
Gli avevo portato copia cartacea, conoscendo il suo deciso rifiuto ad usare mezzi informatici, dei piccoli miei scritti pubblicati online da Listone Mag: più volte lo avevo citato! Confermò che erano proprio le sue esatte parole quelle che ricordavo mi avesse detto tanti anni prima: “Se sparisse il Castello, i ferraresi se ne accorgerebbero solo perché mancherebbe l’ombra”. Un modo quasi.. metafisico per descrivere perfettamente l’indole dei suoi concittadini.


L’ultima volta in cui lo incontrai è stata due anni fa, quando lui e Lola hanno accettato di posare per una mia foto per la mostra “Le Muse quietanti", ritratti di coppie legate a Ferrara e al mondo dell'arte. È stato un grande regalo, non ero certa che avrebbero accondisceso a questo mio desiderio. Invece mi hanno stupito ancora, giovani senz’anni, nostre Muse a tutti gli effetti.
 Un momento che mi commuove ancora.


                                                             Le Muse quietanti - 2016         Franco Farina e Lola Bonora : Le Muse abitano qui

                                        





   


lunedì 1 maggio 2017

Piccoli paradossi ferraresI: le chiome dei figuranti




Passano gli anni ma il cartello che indichi, in quel preciso e strategico punto in cui sarebbe necessario, dove girare per il palazzo Schifanoia, non appare. Ciò non toglie che alla fine, destreggiandosi con cartine alla mano e chiedendo ai passanti, i turisti arrivino comunque alla meta. E portino poi con sè la memoria di quei personaggi ritratti negli affreschi, racconti di un’epoca spettacolare.
Sicuramente familiari per tutti i ferraresi sono in particolar modo i volti dipinti da Francesco del Cossa negli incantevoli intrecci amorosi o nei gruppi di cortigiani attorno al Duca.
Talvolta mi capita di incrociare per strada qualche fanciulla che pare essere uscita dal mese di Marzo o Aprile e la sovrappongo, in una visione di un attimo, ad una figura dipinta: una tessitrice o una Dea? Aveva un liuto in mano? Chissà.
Una volta, in un viaggio in treno, sono rimasta seduta per diverse ore davanti a.. Borso d’Este.  Ho guardato così a lungo quel signore così incredibilmente uguale al nostro Duca che alla fine del viaggio gli ho dovuto confidare questa sua singolare somiglianza e ricordo la sua ilarità e lo stupore nell’apprenderlo.
Ho sempre sognato una regia del nostro Palio che possa immaginare una straordinaria ricerca per immagini, ossia il ritrovare nel mondo reale chi per curioso gioco del destino assomiglia davvero ai protagonisti del nostro magnifico ciclo pittorico.


                                                                         
                          




 Lo studio da parte delle Contrade nella ricostruzione dei costumi e delle rievocazioni sceniche si è negli anni sempre più affinato, con attenzione e rigore storico, attento a superare il severo controllo della commissione giudicatrice che assegna i premi ai migliori corteo dei figuranti e rappresentazione coreografica. Quest'ultimo dedicato a Nives Casati, che riferendosi gli affreschi di Schifanoia disegnò per prima i costumi del Palio, rinato nel 1933 dopo secoli di oblio.
Chi ha vissuto i preparativi frementi che ogni anno anticipano le gare del mese di maggio sa con quale attenzione ogni abito e copricapo vengano vagliati: non passano all’esame anche piccoli elementi che non siano compatibili con l’epoca rinascimentale. Occhielli, stoffe, bottoni, passamanerie, calzature, ogni dettaglio deve essere perfetto. E naturalmente anche le complesse acconciature femminili.

E qui avviene un piccolo paradosso. Talmente evidente da non essere nemmeno più visibile, un poco come avviene per la Loggia dei Merciai del nostro Duomo, di cui a fatica si nota l’assurdità di essere una fila di negozi incorporata in una cattedrale.
Nella ricostruzione degli anni ’30 del Palio degli Estensi questo paradosso non esisteva, era tutto congruente, non si era posto nemmeno il dubbio, evidentemente.
Non rimangono molte testimonianze fotografiche di quelle manifestazioni, ma oltre ad alcune trovate in rete ne conservo altre negli album di famiglia, in cui appare il mio papà ragazzino con la bandiera in mano. Scattate dal mio nonno paterno, vi sono anche vedute di altri momenti della sfilata, delle gare in una Piazza Ariostea irriconoscibile o davanti al Borgo di San Giorgio.
 In tutte queste immagini è ben evidente che non solo le figure femminili, ma anche quelle maschili rispecchiavano la moda rinascimentale, non solo negli abiti ma pure nelle acconciature: soltanto i putti che dovevano gareggiare per il Palio di San Romano non indossavano parrucche (che sarebbero certamente volate nella foga della corsa), ma tutti gli altri sì. Dai copricapi del Duca, degli ambasciatori, dei dottori, dei nobili e dei popolani uscivano le chiome, che coprivano le orecchie con morbide volute, così come i pittori della Officina ferrarese ci hanno raccontato con dovizia di particolari.
Mentre nella attuale rievocazione storica i figuranti maschili sfoggiano corti tagli di capelli, del tutto contemporanei e in evidente dissonanza con il resto della mise-en-scène.


 
 
             

Non è dato sapere perché, a quasi mezzo secolo dalla rinnovata tradizione del Palio di Ferrara, nessuna Contrada abbia avuto finora l’ardire di aggiungere capigliatura ai suoi figuranti del sesso forte. Forse per il timore di femminilizzarli troppo, dopo il gonnellino e le calzamaglie?  O che un paio di boccoli aggiunga peso al faticoso fardello di indossare stoicamente ricchi drappeggi di stoffe sotto il solleone di fine maggio? Le damigelle sopportano con eleganza l’una e l’altra cosa.
Chissà, il mistero rimane.
Finché una Contrada oserà fare per prima questo audace salto, per poi essere di certo seguita da tutte le altre..





                                     
                               

mercoledì 5 aprile 2017

La chiamano Mimì, ma il suo nome è Emma



Il mondo artistico ferrarese attorno a Mimì Quilici Buzzacchi





Guardo incantata questa foto di Mimì, scattata negli anni ’70 dal figlio Folco. La luce arriva diretta al volto e gli occhi, fieri, non sono rivolti all’obiettivo ma verso i propri pensieri. Mentre stringe il pennello la mano accarezza, come in un’intesa silenziosa, il paesaggio nascente appoggiato sul suo inseparabile cavalletto.

Questa straordinaria donna ed artista, tra le maggiori esponenti del ‘900 italiano, ha creato immagini rimaste nella memoria collettiva della nostra città, come la famosissima incisione su tavola di bosso della magica e misteriosa ”Leggenda di Ferrara” o come le splendide copertine a colori, con immagini di scorci, monumenti o soggetti ferraresi resi con taglio aerodinamico e futurista, incise su linoleum, della “Rivista di Ferrara” degli anni ’30, esposte un paio di anni fa in una mostra nel salone del nostro Palazzo Municipale.

           



Non ho mai conosciuto Mimì. E’ una bella emozione, perciò, sentire le parole di Lucio Scardino, che invece l’ha più volte incontrata, nel corso degli anni. E che ora ha curato un’esposizione ferrarese di numerose sue opere grafiche, datate tra il 1927 e il 1943, facenti parte della collezione di Folco e Vieri Quilici. Dopo l’importante monografica “Tra segno e colore” alla Galleria d’Arte Moderna di Roma dell’autunno scorso, infatti, è stato un desiderio dei figli, romani di adozione ma profondamente legati a Ferrara, il ripresentare nella loro città natale non tutti i numerosi oli esposti ma le opere perlopiù nate negli anni in cui la loro famiglia ancora vi abitava, nella bella villa liberty di Viale Cavour.  In occasione del recente convegno romano sul cinema futurista, in cui Lucio ha esposto una sua relazione su Sepo e Diana McGill (attrice ferrarese amica della stessa Quilici), si è concretizzata quindi l’idea di questa attuale mostra, che ha fatto tornare in città, con le opere di Mimì, per alcuni giorni anche il figlio Vieri e il nipote Simone.
A Lucio noi ferraresi dobbiamo riconoscenza per il suo avere, con passione e tenacia, riportato luce su molta parte della storia artistica ferrarese del secolo scorso, spesso dimenticata. Ma non è certo poco conosciuta Mimì Quilici, la cui fama ha varcato di gran lunga le mura cittadine, avendo esposto alla Biennale di Venezia fin dal 1928, poi alla Quadriennale romana e via via fino alle retrospettive dei giorni nostri.

“ Ho conosciuto Mimì Quilici nel 1981, quando lavoravo al Palazzo dei Diamanti. Franco Farina aveva invitato la pittrice per una mostra dei suoi Castelli Estensi, in disegni e oli, avvenuta proprio nelle sale del nostro principale monumento.
A presentare Mimì a Farina era stato il senatore comunista Mario Roffi, poliedrico intellettuale ideatore di infinite manifestazioni culturali, che era stato il primo a farla tornare ad esporre in città dopo la guerra, nel ’56.
 Con timore reverenziale, quindi, mi sono messo a disposizione di questa famosa artista, mamma del regista e scrittore Folco e dell’architetto Vieri e vedova di Nello, uomo di grande cultura e direttore del Corriere Padano (giornale in cui lei stessa curava la pagina dell’arte).
Mi è venuta incontro una piccola e garbata signora dai capelli bianchi, con imbarazzo l’ho fatta salire sulla mia vecchia Mini Minor e lei inaspettatamente mi ha chiesto di accompagnarla a Pontelagoscuro, alla ricerca dei Mandorlini! Abbiamo cercato in vari forni, ma questa prelibatezza che evidentemente nei lunghi anni romani non aveva dimenticato, era allora introvabile.. Dopo questo curioso inizio, dal sapore proustiano, ho avuto con lei altre occasioni di incontro. Mi ha invitato a Roma, nella sua casa sul Lungotevere Flaminio, dalle cui luminose finestre vedeva quel fiume che aveva più volte dipinto, e che le ricordava il fiume nostrano.. Aveva portato con sé nella capitale tanti ricordi e oggetti della sua casa in Viale Cavour e alle pareti erano appese opere di amici artisti ferraresi, tra cui Funi, Cattabriga, Zucchini, Virgili. Mi ha confidato di sentirsi quasi esiliata a Roma, avendo Ferrara nel cuore.”


 Sono nomi, questi degli amici pittori e scultori di Mimì, che raccontano la storia dell’arte ferrarese del novecento. Insieme al primo, Filippo De Pisis, conosciuto quando Mimì era ancora una giovane ragazza e dipingeva paesaggi marini, durante le lunghe vacanze nella casa paterna a Cesenatico.  Mentre il pittore, sul molo, come lei stessa racconta: ”declamava sue poesie in francese e intorno uomini di quel mondo ferrarese che ha dato tanto alla cultura di quegli anni”. E De Pisis la descrive così: ”Dipinge come sorride e come si muove, senza nessuno sforzo..”
Poi le amicizie e le affinità con Corrado Padovani, Galileo Cattabriga, Annibale Zucchini e Roberto Melli, ritrovato poi a Roma, e quindi l’incontro illuminante con Achille Funi, con il quale nel 1928 ha esposto nella mostra della “Settimana ferrarese”.
Negli anni dell’”Ottava d’oro", poi, Funi affrescava (dopo aver dipinto i cartoni preparatori proprio nel granaio della casa dei Quilici) le affascinanti storie de ”Il Mito di Ferrara”, in sintonia con le importanti celebrazioni ariostesche che avevano richiamato a Ferrara molti grandi personalità della cultura artistica e letteraria del tempo. E intanto Mimì creava una serie di xilografie a corredo del volume che ha raccolto il racconto di questi cinque anni di avvenimenti (1928-1933), promossi dallo stesso Nello Quilici insieme a Balbo e a Renzo Ravenna. In seguito anche lei, nel ’38, si è cimentata nell’arte dell’affresco, proprio sotto la guida di Funi ed insieme a Galileo Cattabriga, Felicita Frai, Enzo Nenci, Nives Casati ed altri, nei villaggi dei coloni italiani in Libia. In questa mostra è esposta anche una sua xilografia che raffigura una veduta di Leptis Magna, con le antiche rovine della città fenicia non lontana da Tripoli.
Negli anni precedenti la seconda guerra, Italo Balbo, allora governatore della Libia, aveva voluto con sé alcuni amici ferraresi, tra cui il giornalista Nello Quilici e il medico Enrico Caretti. Prima dell’abbattimento del trimotore su cui questi erano in volo con Balbo nel cielo di Tobruk, da parte della contraerea italiana nel giugno del 1940, le rispettive famiglie avevano quindi vissuto diversi anni in terra libica. Caretti aveva sposato la sorella della mia nonna materna ed anche la bimba che sarebbe diventata mia mamma, quindi, era a Tripoli in quegli anni. Ma è stata più fortunata delle prime cugine Anna ed Emma Caretti, che hanno perso il loro padre in quel volo. Come i tre figli di Balbo e come Folco e Vieri, tutti compagni di gioco.
E’ stato questo dramma (su cui Folco ha scritto “Tobruk 1940” e realizzato un documentario, importanti ed inedite testimonianze) a far decidere Mimì di lasciare con coraggio e determinazione Ferrara, ormai non più una “piccola capitale”, e con i figli piccoli trasferirsi a Roma. Aprendo in questo modo la sua arte verso nuovi orizzonti e ricerche.

In Libia c’era quindi anche Nives Comas Casati (nipote del notissimo cartellonista Marcello Dudovich), artista ferrarese e donna affascinante ed eclettica, su cui per primo Lucio, nel 1985, ha riportato l’attenzione dei ferraresi ..distratti:

“In una mia successiva visita romana, Mimì mi ha fatto conoscere Nives Casati, che abitava poco distante da casa sua. Erano amiche dai tempi in cui ambedue abitavano nella nostra città, dove Nives era stata una personalità attivissima in molti campi. E si erano frequentate anche in Libia, dove la Casati ha vissuto venticinque anni. Oltre che pittrice lei stessa (sua è una delle copertine della “Rivista di Ferrara”) era stata tra coloro che avevano inventato, insieme ad Angelo Aguiari, la rivista “Lodovico”. E del rinato Palio era stata, come per la rivista, scenografa, coreografa e costumista. Nives mi ha rivelato di essere dispiaciuta che Ferrara l’avesse dimenticata e quindi poi ho scritto un lungo articolo su di lei, pubblicato sulla rivista “Ferrara”, da cui è partita successivamente una serie di riconoscimenti: le è stato dedicato il premio per i migliori costumi nel corteo del Palio, nel ’90 è stata inserita nella Biennale Donna del Palazzo dei Diamanti e infine Sara Accorsi nel 2010 ha pubblicato una monografia su di lei, “L’eletta Signora”.  Tutto è partito dall’incontro di quel giorno, grazie a Mimì”.

 Tornando agli anni ferraresi della Quilici, va ricordato l’altro artista che, insieme a lei, è stato il massimo esponente locale novecentesco della tecnica xilografica, e con il quale ha condiviso un paio di mostre allestite nel 1932 in Castello e al Teatro Comunale: Vitale Vitali, che pure era chiamato spesso con un diminutivo, Vitalino. Pittore ed incisore, ha ritratto la natìa Comacchio, ma anche tanti scorci di Ferrara, dove ha vissuto, in una “poetica rappresentazione vista dai tetti”, come Lucio ha scritto in occasione di un convegno dedicato alla vasta opera di questo eclettico artista. Vitali aveva infatti creato pure una straordinaria serie di disegni di progetti architettonici dal sapore Art Nouveau, che sono stati esposti in quella occasione, insieme ai tanti oli e xilografie, nell’imbarcadero del castello estense.
 Voluto dalla Commissione Cultura dell’Ordine degli Architetti di Ferrara, come impegno per conoscere i progettisti locali, questo convegno del 2003 era il secondo dopo quello di tre anni precedente dedicato, singolare coincidenza, proprio al secondogenito di Mimì, importante architetto che molto ha creato nella nostra città. E che si è concluso con la mostra: “Vieri Quilici a Ferrara, 1965-72”.
E, volendo aggiungere un altro curioso intreccio di destini, bisogna raccontare che il figlio di Vitalino Vitali, Gian Ferruccio, che è stato attore per passione (come lo è tuttora la figlia Valeria, protagonista del “Lodovico” di questi anni come lo è stata allora Nives Casati), aveva sposato Anna Caretti, la figlia del medico ferrarese morto sull’aereo con Nello Quilici..



Nel contesto artistico ferrarese più recente va inserita anche un’altra figura femminile, Marisa Carolina Occari, scomparsa da pochi anni. Allieva di Morandi, la sua opera incisoria è di grande perizia, raffinatezza e poesia, anche se, non essendosi mai allontanata da qui, la sua fama vi è rimasta circoscritta.
Come Mimì, anche Marisa amava molto dipingere i paesaggi, la campagna e soprattutto il Po, dal vero. Vi sono alcune fotografie sia dell’una che dell’altra, che ritraggono due signore con i capelli bianchi, intente a dipingere sulla riva del fiume.. Certamente un amore fortissimo per entrambe, se partivano da casa con armi e bagagli per immergersi nel silenzio della natura da ritrarre.
“Me ne partii apposta da Roma con mia cassetta dei colori per visitare le valli di Comacchio”, ha raccontato Mimì, aggiungendo di aver dipinto 40 quadri partendo alle 5 del mattino e navigando per i canali per 15 giorni di seguito. Con in testa, per difendersi dal sole cocente, il casco coloniale portato a casa dalla Libia. D’altra parte vera passione doveva essere, se persino in viaggio di nozze aveva sentito la mancanza della sua cassetta dei colori, tant’è che il marito Nello Quilici aveva dovuto regalargliene una nuova, comprata a Barcellona..

Saranno questi paesaggi di Spina, dipinti anni dopo la sua partenza da Ferrara, a ricevere parole di lode dai suoi concittadini Giorgio Bassani e  Michelangelo Antonioni, tra moltissimi altri. Quando, ormai lontana dagli influssi Dèco e postmetafisici delle prime vedute cittadine e dalle stilizzazioni novecentiste, Mimì sarà affascinata da “questo paesaggio forse più spoglio, desolato e atonale d’Italia” (Bassani), “in uno spazio ideale, quello della memoria, forse..” (Antonioni)
“Quando ci si allontana dalla propria terra è veramente allora che si sente di amarla. E bisogna ritornare a rivederla”, ha scritto Mimì. Nostalgia e memoria che diventano parte della propria poetica, così come per gli altri due grandi ferraresi, che come lei hanno lasciato Ferrara per vivere a Roma.

Ma gustiamo ora, in questi giorni, la preziosa presenza in città, alla Galleria Idearte, della straordinaria cartella “Italia antica e nuova”- le incisioni degli anni ferraresi. E lasciamoci incantare dalla magia delle sue opere, magari portando con noi le stesse toccanti parole di Mimì, quando descrive la sua “Leggenda di Ferrara”:
“Si avvicinava il momento di lasciare Ferrara, perché ormai cominciavano i grandi bombardamenti. Allora decisi di terminare un’incisione della città e volevo lasciare un ricordo che significasse qualche cosa, un saluto a Ferrara, un augurio di difesa e incisi un San Giorgio a cavallo attraverso il centro della piazza a mò di difesa. E avvenne una cosa che mi commuove ancora oggi a raccontarla, perché lo stesso giorno di San Giorgio, ma tre anni dopo, quando finì la guerra, entrarono gli inglesi in città proprio quel giorno lì, nella stessa posizione che io avevo fatto nel disegno dell’incisione: la Piazza, il palazzo del Vescovo con il Vescovo che era sceso giù, le statue tolte dai piedistalli, come se l’avessi vista..”

                                                


Ed infine ripensiamo, in quel momento, a questo suo pensiero, quasi l’avessimo accanto:
“A volte mi capita di vedere alle mie mostre qualcuno che sorride e si siede davanti a un quadro per guardarlo meglio, per riposarsi. Allora provo un senso di merito, sento l’utilità del mio lavoro e questo mi incoraggia ad esporre”.




mimi-quilici-buzzacchi-italia-antica-e-nuova-incisioni-degli-anni-ferraresi-1927-1943/