lunedì 1 maggio 2017

Piccoli paradossi ferraresI: le chiome dei figuranti




Passano gli anni ma il cartello che indichi, in quel preciso e strategico punto in cui sarebbe necessario, dove girare per il palazzo Schifanoia, non appare. Ciò non toglie che alla fine, destreggiandosi con cartine alla mano e chiedendo ai passanti, i turisti arrivino comunque alla meta. E portino poi con sè la memoria di quei personaggi ritratti negli affreschi, racconti di un’epoca spettacolare.
Sicuramente familiari per tutti i ferraresi sono in particolar modo i volti dipinti da Francesco del Cossa negli incantevoli intrecci amorosi o nei gruppi di cortigiani attorno al Duca.
Talvolta mi capita di incrociare per strada qualche fanciulla che pare essere uscita dal mese di Marzo o Aprile e la sovrappongo, in una visione di un attimo, ad una figura dipinta: una tessitrice o una Dea? Aveva un liuto in mano? Chissà.
Una volta, in un viaggio in treno, sono rimasta seduta per diverse ore davanti a.. Borso d’Este.  Ho guardato così a lungo quel signore così incredibilmente uguale al nostro Duca che alla fine del viaggio gli ho dovuto confidare questa sua singolare somiglianza e ricordo la sua ilarità e lo stupore nell’apprenderlo.
Ho sempre sognato una regia del nostro Palio che possa immaginare una straordinaria ricerca per immagini, ossia il ritrovare nel mondo reale chi per curioso gioco del destino assomiglia davvero ai protagonisti del nostro magnifico ciclo pittorico.


                                                                         
                          




 Lo studio da parte delle Contrade nella ricostruzione dei costumi e delle rievocazioni sceniche si è negli anni sempre più affinato, con attenzione e rigore storico, attento a superare il severo controllo della commissione giudicatrice che assegna i premi ai migliori corteo dei figuranti e rappresentazione coreografica. Quest'ultimo dedicato a Nives Casati, che riferendosi gli affreschi di Schifanoia disegnò per prima i costumi del Palio, rinato nel 1933 dopo secoli di oblio.
Chi ha vissuto i preparativi frementi che ogni anno anticipano le gare del mese di maggio sa con quale attenzione ogni abito e copricapo vengano vagliati: non passano all’esame anche piccoli elementi che non siano compatibili con l’epoca rinascimentale. Occhielli, stoffe, bottoni, passamanerie, calzature, ogni dettaglio deve essere perfetto. E naturalmente anche le complesse acconciature femminili.

E qui avviene un piccolo paradosso. Talmente evidente da non essere nemmeno più visibile, un poco come avviene per la Loggia dei Merciai del nostro Duomo, di cui a fatica si nota l’assurdità di essere una fila di negozi incorporata in una cattedrale.
Nella ricostruzione degli anni ’30 del Palio degli Estensi questo paradosso non esisteva, era tutto congruente, non si era posto nemmeno il dubbio, evidentemente.
Non rimangono molte testimonianze fotografiche di quelle manifestazioni, ma oltre ad alcune trovate in rete ne conservo altre negli album di famiglia, in cui appare il mio papà ragazzino con la bandiera in mano. Scattate dal mio nonno paterno, vi sono anche vedute di altri momenti della sfilata, delle gare in una Piazza Ariostea irriconoscibile o davanti al Borgo di San Giorgio.
 In tutte queste immagini è ben evidente che non solo le figure femminili, ma anche quelle maschili rispecchiavano la moda rinascimentale, non solo negli abiti ma pure nelle acconciature: soltanto i putti che dovevano gareggiare per il Palio di San Romano non indossavano parrucche (che sarebbero certamente volate nella foga della corsa), ma tutti gli altri sì. Dai copricapi del Duca, degli ambasciatori, dei dottori, dei nobili e dei popolani uscivano le chiome, che coprivano le orecchie con morbide volute, così come i pittori della Officina ferrarese ci hanno raccontato con dovizia di particolari.
Mentre nella attuale rievocazione storica i figuranti maschili sfoggiano corti tagli di capelli, del tutto contemporanei e in evidente dissonanza con il resto della mise-en-scène.


 
 
             

Non è dato sapere perché, a quasi mezzo secolo dalla rinnovata tradizione del Palio di Ferrara, nessuna Contrada abbia avuto finora l’ardire di aggiungere capigliatura ai suoi figuranti del sesso forte. Forse per il timore di femminilizzarli troppo, dopo il gonnellino e le calzamaglie?  O che un paio di boccoli aggiunga peso al faticoso fardello di indossare stoicamente ricchi drappeggi di stoffe sotto il solleone di fine maggio? Le damigelle sopportano con eleganza l’una e l’altra cosa.
Chissà, il mistero rimane.
Finché una Contrada oserà fare per prima questo audace salto, per poi essere di certo seguita da tutte le altre..





                                     
                               

mercoledì 5 aprile 2017

La chiamano Mimì, ma il suo nome è Emma



Il mondo artistico ferrarese attorno a Mimì Quilici Buzzacchi





Guardo incantata questa foto di Mimì, scattata negli anni ’70 dal figlio Folco. La luce arriva diretta al volto e gli occhi, fieri, non sono rivolti all’obiettivo ma verso i propri pensieri. Mentre stringe il pennello la mano accarezza, come in un’intesa silenziosa, il paesaggio nascente appoggiato sul suo inseparabile cavalletto.

Questa straordinaria donna ed artista, tra le maggiori esponenti del ‘900 italiano, ha creato immagini rimaste nella memoria collettiva della nostra città, come la famosissima incisione su tavola di bosso della magica e misteriosa ”Leggenda di Ferrara” o come le splendide copertine a colori, con immagini di scorci, monumenti o soggetti ferraresi resi con taglio aerodinamico e futurista, incise su linoleum, della “Rivista di Ferrara” degli anni ’30, esposte un paio di anni fa in una mostra nel salone del nostro Palazzo Municipale.

           



Non ho mai conosciuto Mimì. E’ una bella emozione, perciò, sentire le parole di Lucio Scardino, che invece l’ha più volte incontrata, nel corso degli anni. E che ora ha curato un’esposizione ferrarese di numerose sue opere grafiche, datate tra il 1927 e il 1943, facenti parte della collezione di Folco e Vieri Quilici. Dopo l’importante monografica “Tra segno e colore” alla Galleria d’Arte Moderna di Roma dell’autunno scorso, infatti, è stato un desiderio dei figli, romani di adozione ma profondamente legati a Ferrara, il ripresentare nella loro città natale non tutti i numerosi oli esposti ma le opere perlopiù nate negli anni in cui la loro famiglia ancora vi abitava, nella bella villa liberty di Viale Cavour.  In occasione del recente convegno romano sul cinema futurista, in cui Lucio ha esposto una sua relazione su Sepo e Diana McGill (attrice ferrarese amica della stessa Quilici), si è concretizzata quindi l’idea di questa attuale mostra, che ha fatto tornare in città, con le opere di Mimì, per alcuni giorni anche il figlio Vieri e il nipote Simone.
A Lucio noi ferraresi dobbiamo riconoscenza per il suo avere, con passione e tenacia, riportato luce su molta parte della storia artistica ferrarese del secolo scorso, spesso dimenticata. Ma non è certo poco conosciuta Mimì Quilici, la cui fama ha varcato di gran lunga le mura cittadine, avendo esposto alla Biennale di Venezia fin dal 1928, poi alla Quadriennale romana e via via fino alle retrospettive dei giorni nostri.

“ Ho conosciuto Mimì Quilici nel 1981, quando lavoravo al Palazzo dei Diamanti. Franco Farina aveva invitato la pittrice per una mostra dei suoi Castelli Estensi, in disegni e oli, avvenuta proprio nelle sale del nostro principale monumento.
A presentare Mimì a Farina era stato il senatore comunista Mario Roffi, poliedrico intellettuale ideatore di infinite manifestazioni culturali, che era stato il primo a farla tornare ad esporre in città dopo la guerra, nel ’56.
 Con timore reverenziale, quindi, mi sono messo a disposizione di questa famosa artista, mamma del regista e scrittore Folco e dell’architetto Vieri e vedova di Nello, uomo di grande cultura e direttore del Corriere Padano (giornale in cui lei stessa curava la pagina dell’arte).
Mi è venuta incontro una piccola e garbata signora dai capelli bianchi, con imbarazzo l’ho fatta salire sulla mia vecchia Mini Minor e lei inaspettatamente mi ha chiesto di accompagnarla a Pontelagoscuro, alla ricerca dei Mandorlini! Abbiamo cercato in vari forni, ma questa prelibatezza che evidentemente nei lunghi anni romani non aveva dimenticato, era allora introvabile.. Dopo questo curioso inizio, dal sapore proustiano, ho avuto con lei altre occasioni di incontro. Mi ha invitato a Roma, nella sua casa sul Lungotevere Flaminio, dalle cui luminose finestre vedeva quel fiume che aveva più volte dipinto, e che le ricordava il fiume nostrano.. Aveva portato con sé nella capitale tanti ricordi e oggetti della sua casa in Viale Cavour e alle pareti erano appese opere di amici artisti ferraresi, tra cui Funi, Cattabriga, Zucchini, Virgili. Mi ha confidato di sentirsi quasi esiliata a Roma, avendo Ferrara nel cuore.”


 Sono nomi, questi degli amici pittori e scultori di Mimì, che raccontano la storia dell’arte ferrarese del novecento. Insieme al primo, Filippo De Pisis, conosciuto quando Mimì era ancora una giovane ragazza e dipingeva paesaggi marini, durante le lunghe vacanze nella casa paterna a Cesenatico.  Mentre il pittore, sul molo, come lei stessa racconta: ”declamava sue poesie in francese e intorno uomini di quel mondo ferrarese che ha dato tanto alla cultura di quegli anni”. E De Pisis la descrive così: ”Dipinge come sorride e come si muove, senza nessuno sforzo..”
Poi le amicizie e le affinità con Corrado Padovani, Galileo Cattabriga, Annibale Zucchini e Roberto Melli, ritrovato poi a Roma, e quindi l’incontro illuminante con Achille Funi, con il quale nel 1928 ha esposto nella mostra della “Settimana ferrarese”.
Negli anni dell’”Ottava d’oro", poi, Funi affrescava (dopo aver dipinto i cartoni preparatori proprio nel granaio della casa dei Quilici) le affascinanti storie de ”Il Mito di Ferrara”, in sintonia con le importanti celebrazioni ariostesche che avevano richiamato a Ferrara molti grandi personalità della cultura artistica e letteraria del tempo. E intanto Mimì creava una serie di xilografie a corredo del volume che ha raccolto il racconto di questi cinque anni di avvenimenti (1928-1933), promossi dallo stesso Nello Quilici insieme a Balbo e a Renzo Ravenna. In seguito anche lei, nel ’38, si è cimentata nell’arte dell’affresco, proprio sotto la guida di Funi ed insieme a Galileo Cattabriga, Felicita Frai, Enzo Nenci, Nives Casati ed altri, nei villaggi dei coloni italiani in Libia. In questa mostra è esposta anche una sua xilografia che raffigura una veduta di Leptis Magna, con le antiche rovine della città fenicia non lontana da Tripoli.
Negli anni precedenti la seconda guerra, Italo Balbo, allora governatore della Libia, aveva voluto con sé alcuni amici ferraresi, tra cui il giornalista Nello Quilici e il medico Enrico Caretti. Prima dell’abbattimento del trimotore su cui questi erano in volo con Balbo nel cielo di Tobruk, da parte della contraerea italiana nel giugno del 1940, le rispettive famiglie avevano quindi vissuto diversi anni in terra libica. Caretti aveva sposato la sorella della mia nonna materna ed anche la bimba che sarebbe diventata mia mamma, quindi, era a Tripoli in quegli anni. Ma è stata più fortunata delle prime cugine Anna ed Emma Caretti, che hanno perso il loro padre in quel volo. Come i tre figli di Balbo e come Folco e Vieri, tutti compagni di gioco.
E’ stato questo dramma (su cui Folco ha scritto “Tobruk 1940” e realizzato un documentario, importanti ed inedite testimonianze) a far decidere Mimì di lasciare con coraggio e determinazione Ferrara, ormai non più una “piccola capitale”, e con i figli piccoli trasferirsi a Roma. Aprendo in questo modo la sua arte verso nuovi orizzonti e ricerche.

In Libia c’era quindi anche Nives Comas Casati (nipote del notissimo cartellonista Marcello Dudovich), artista ferrarese e donna affascinante ed eclettica, su cui per primo Lucio, nel 1985, ha riportato l’attenzione dei ferraresi ..distratti:

“In una mia successiva visita romana, Mimì mi ha fatto conoscere Nives Casati, che abitava poco distante da casa sua. Erano amiche dai tempi in cui ambedue abitavano nella nostra città, dove Nives era stata una personalità attivissima in molti campi. E si erano frequentate anche in Libia, dove la Casati ha vissuto venticinque anni. Oltre che pittrice lei stessa (sua è una delle copertine della “Rivista di Ferrara”) era stata tra coloro che avevano inventato, insieme ad Angelo Aguiari, la rivista “Lodovico”. E del rinato Palio era stata, come per la rivista, scenografa, coreografa e costumista. Nives mi ha rivelato di essere dispiaciuta che Ferrara l’avesse dimenticata e quindi poi ho scritto un lungo articolo su di lei, pubblicato sulla rivista “Ferrara”, da cui è partita successivamente una serie di riconoscimenti: le è stato dedicato il premio per i migliori costumi nel corteo del Palio, nel ’90 è stata inserita nella Biennale Donna del Palazzo dei Diamanti e infine Sara Accorsi nel 2010 ha pubblicato una monografia su di lei, “L’eletta Signora”.  Tutto è partito dall’incontro di quel giorno, grazie a Mimì”.

 Tornando agli anni ferraresi della Quilici, va ricordato l’altro artista che, insieme a lei, è stato il massimo esponente locale novecentesco della tecnica xilografica, e con il quale ha condiviso un paio di mostre allestite nel 1932 in Castello e al Teatro Comunale: Vitale Vitali, che pure era chiamato spesso con un diminutivo, Vitalino. Pittore ed incisore, ha ritratto la natìa Comacchio, ma anche tanti scorci di Ferrara, dove ha vissuto, in una “poetica rappresentazione vista dai tetti”, come Lucio ha scritto in occasione di un convegno dedicato alla vasta opera di questo eclettico artista. Vitali aveva infatti creato pure una straordinaria serie di disegni di progetti architettonici dal sapore Art Nouveau, che sono stati esposti in quella occasione, insieme ai tanti oli e xilografie, nell’imbarcadero del castello estense.
 Voluto dalla Commissione Cultura dell’Ordine degli Architetti di Ferrara, come impegno per conoscere i progettisti locali, questo convegno del 2003 era il secondo dopo quello di tre anni precedente dedicato, singolare coincidenza, proprio al secondogenito di Mimì, importante architetto che molto ha creato nella nostra città. E che si è concluso con la mostra: “Vieri Quilici a Ferrara, 1965-72”.
E, volendo aggiungere un altro curioso intreccio di destini, bisogna raccontare che il figlio di Vitalino Vitali, Gian Ferruccio, che è stato attore per passione (come lo è tuttora la figlia Valeria, protagonista del “Lodovico” di questi anni come lo è stata allora Nives Casati), aveva sposato Anna Caretti, la figlia del medico ferrarese morto sull’aereo con Nello Quilici..



Nel contesto artistico ferrarese più recente va inserita anche un’altra figura femminile, Marisa Carolina Occari, scomparsa da pochi anni. Allieva di Morandi, la sua opera incisoria è di grande perizia, raffinatezza e poesia, anche se, non essendosi mai allontanata da qui, la sua fama vi è rimasta circoscritta.
Come Mimì, anche Marisa amava molto dipingere i paesaggi, la campagna e soprattutto il Po, dal vero. Vi sono alcune fotografie sia dell’una che dell’altra, che ritraggono due signore con i capelli bianchi, intente a dipingere sulla riva del fiume.. Certamente un amore fortissimo per entrambe, se partivano da casa con armi e bagagli per immergersi nel silenzio della natura da ritrarre.
“Me ne partii apposta da Roma con mia cassetta dei colori per visitare le valli di Comacchio”, ha raccontato Mimì, aggiungendo di aver dipinto 40 quadri partendo alle 5 del mattino e navigando per i canali per 15 giorni di seguito. Con in testa, per difendersi dal sole cocente, il casco coloniale portato a casa dalla Libia. D’altra parte vera passione doveva essere, se persino in viaggio di nozze aveva sentito la mancanza della sua cassetta dei colori, tant’è che il marito Nello Quilici aveva dovuto regalargliene una nuova, comprata a Barcellona..

Saranno questi paesaggi di Spina, dipinti anni dopo la sua partenza da Ferrara, a ricevere parole di lode dai suoi concittadini Giorgio Bassani e  Michelangelo Antonioni, tra moltissimi altri. Quando, ormai lontana dagli influssi Dèco e postmetafisici delle prime vedute cittadine e dalle stilizzazioni novecentiste, Mimì sarà affascinata da “questo paesaggio forse più spoglio, desolato e atonale d’Italia” (Bassani), “in uno spazio ideale, quello della memoria, forse..” (Antonioni)
“Quando ci si allontana dalla propria terra è veramente allora che si sente di amarla. E bisogna ritornare a rivederla”, ha scritto Mimì. Nostalgia e memoria che diventano parte della propria poetica, così come per gli altri due grandi ferraresi, che come lei hanno lasciato Ferrara per vivere a Roma.

Ma gustiamo ora, in questi giorni, la preziosa presenza in città, alla Galleria Idearte, della straordinaria cartella “Italia antica e nuova”- le incisioni degli anni ferraresi. E lasciamoci incantare dalla magia delle sue opere, magari portando con noi le stesse toccanti parole di Mimì, quando descrive la sua “Leggenda di Ferrara”:
“Si avvicinava il momento di lasciare Ferrara, perché ormai cominciavano i grandi bombardamenti. Allora decisi di terminare un’incisione della città e volevo lasciare un ricordo che significasse qualche cosa, un saluto a Ferrara, un augurio di difesa e incisi un San Giorgio a cavallo attraverso il centro della piazza a mò di difesa. E avvenne una cosa che mi commuove ancora oggi a raccontarla, perché lo stesso giorno di San Giorgio, ma tre anni dopo, quando finì la guerra, entrarono gli inglesi in città proprio quel giorno lì, nella stessa posizione che io avevo fatto nel disegno dell’incisione: la Piazza, il palazzo del Vescovo con il Vescovo che era sceso giù, le statue tolte dai piedistalli, come se l’avessi vista..”

                                                


Ed infine ripensiamo, in quel momento, a questo suo pensiero, quasi l’avessimo accanto:
“A volte mi capita di vedere alle mie mostre qualcuno che sorride e si siede davanti a un quadro per guardarlo meglio, per riposarsi. Allora provo un senso di merito, sento l’utilità del mio lavoro e questo mi incoraggia ad esporre”.




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mercoledì 1 febbraio 2017

L'Orlando di legno, ovvero il laboratorio furioso





Su, oltre lo scalone di Palazzo Municipale, era in pieno svolgimento una seduta del Consiglio comunale quando, nella piazza, le motoseghe hanno affrontato i blocchi di cirmolo. Il rombo improvviso ed..infernale di 21 scultori in azione ha fatto sobbalzare sulle sedie sindaco e assessori.
Era la Settimana Estense del 1984 e iniziava “L’Orlando di legno, ovvero il laboratorio furioso”.
Dal 17 al 23 settembre la città ha visto nascere opere dedicate al capolavoro dell’Ariosto, create da artisti provenienti da molte parti d’Italia, da Aosta a Catanzaro, più un finlandese, un tedesco e un ferrarese abitante in Australia.

Il titolo, ideato da Gianluigi Magoni e da Giorgio Franceschini, era un ironico gioco di parole che calzava a pennello con l’esordio quasi violento dei lavori e l’esibizione di forza necessaria per completare una grande scultura in pochi giorni.
E vinse il ballottaggio con “L’Ottava di legno”, che faceva il verso all’Ottava d’oro, famosa rima ariostesca, alla quale era stato dedicato il titolo della lunghissima serie di manifestazioni ferraresi in onore del Poeta, durate dal 1928 al 1933. 

" L'Ottava d'oro"


Ma il tema era stato strategicamente dato per offrire lo spunto, ad artisti tanto diversi fra loro, di immaginare un’opera legata al mondo fantastico del poema e quindi legata al contesto ferrarese. Tanto che per favorirne l’immersione creativa, la prima sera è stato proiettato, su una grande schermo nella piazza, l‘ ”Orlando furioso” di Luca Ronconi, nella sua riduzione filmica del 1975.





Ferrara non ha mai avuto una tradizione di scultura in legno, mancando innanzitutto il materiale primo: il pino cembro cresce in alta montagna, isolato dai boschi, alle pendici delle rocce. E’ un albero protetto, pregiato, perfetto per la scultura; compatto, privo di venature, profumato fino a stordire.  Solo il tiglio, che abbiamo in abbondanza nella nostra pianura, compete con il suo primato.
Simposi o concorsi di scultura avvengono in molti luoghi, di ogni parte del mondo. Nei luoghi turistici alpini, come Cortina d’Ampezzo, Asiago e molti altri, c’è la tradizione della scultura in legno, ma esistono pure quelle su marmo in Toscana e andando molto verso nord, quelli su neve e ghiaccio! Gli scultori invitati, in ogni caso, sono ospitati a spese dell’amministrazione locale e vengono dati loro lo spazio e il materiale. In cambio il loro lavoro diventa attrazione turistica e il tutto finisce insieme alla conclusione dell’opera, che rimane di proprietà dell’autore. Quelle in ghiaccio naturalmente rimangono a sciogliersi in loco..

In quegli anni, insieme ad Angela Pasini, partecipavo ai concorsi alpini di scultura lignea e da questa esperienza e dai tanti incontri era nata l’idea di proporla qui in città. Dove non si era mai vista una manifestazione di scultura e la curiosità è stata tanta.  Veder nascere, giorno dopo giorno, da ogni blocco di legno una figura diversa ha richiamato una folla di curiosi.  Alcune migliaia di persone hanno infatti seguito l’evolversi dei lavori, colloquiando con gli scultori e interessandosi alle diverse tecniche impiegate.
“Tu vai sul popolare!”, mi ha detto Franco Farina, al suo passaggio. La mia maga Alcina, con un uomo ai suoi piedi, stava cominciando a delinearsi, mentre, nella postazione di fianco alla mia, Lino Zanella scolpiva una Angelica incatenata. “Ognuno si porta proprio il suo mondo!”, ha aggiunto, con divertita ironia..

A differenza dei simposi alpini, nei quali si ha a disposizione un tronco, qui in città si era preferito optare per un blocco dello stesso legno di cirmolo, ma assemblato in un grande parallelepipedo. In questo modo ogni artista poteva concepire con più libertà la propria figura, sezionandolo e componendolo in nuove proporzioni.
 La “Cooperativa lavoranti in legno” aveva offerto la materia prima, l’Amministrazione comunale l’organizzazione dello spazio della piazza e l’ospitalità. Con una nota simpatica e molto apprezzata dagli scultori: i pranzi tutti insieme da Settimo (e non ognuno in solitudine nel proprio albergo, come avviene altrove), concludendo ogni giornata in un clima festoso.
Lo scultore altoatesino Wilfried Senoner era accompagnato dalla bella moglie e dai figli piccoli, e naturalmente a fine manifestazione chiese di pagare il debito dei loro pranzi. Ma lo straordinario ragionier Raoul Bindini, al quale era stato dato l’incarico, come dipendente comunale, di tutta l’organizzazione dell’evento, rifiutò decisamente e disse: “Non sia mai che a Ferrara facciamo pagare le donne e i bambini!”  Un momento indimenticabile, per lo stupore sui visi dei presenti..

Per contattare ed invitare gli scultori, avevo passato intere mattine nell’ufficio di Bindini ed era nato un affetto reciproco.  Ferrara ricorda il suo nome tra quelli dei tredici studenti processati assurdamente nel 1942 per aver “offeso l’onore del Capo del Governo Duce del Fascismo distribuendo manifestini sovversivi”. Alle pene della sentenza ricevuta si era aggiunto poi per lui il dramma della perdita di un braccio, durante la guerra.
Eppure era una persona positiva e sorridente.
Sorridenti erano anche i due assessori che da vicino avevano seguito ed appoggiato questa manifestazione: Paolo Mandini ed Emilio Manara: quest’ultimo, con divertita ironia, mi aveva consegnato una una sua personalissima graduatoria in cui posizionava al primo posto tutti gli scultori a pari merito e la sottoscritta per ultima. Ricordo bene le risate!

Dopo i tagli iniziali di sgrossatura, il lavoro di scultura continuava con le sgorbie e la piazza si riempiva di profumo e di trucioli di pino cembro.
E si delineavano opere dagli stili diversissimi. Alcune legate a canoni figurativi, come quelle di Livio Comploi o Egidio Petri, altre essenziali ed astratte, come quelle di Dino Gaspari, Urs Bezold, Gregor Prugger.
Alcuni artisti, già affermati allora ed ancora maggiormente negli anni successivi, come Wilfried Senoner o Guido Muss Mosna (ora non più viventi) crearono opere di grande raffinatezza.
I ferraresi partecipanti erano quattro: Lino Zanella, Angela Pasini ed io (sue allieve negli anni precedenti, in un corso biennale di intaglio e restauro organizzato dalla regione Emilia e Romagna) ed Adriana Mastellari, che dalla creta passava per la prima ed unica volta in quella occasione a cimentarsi  con il legno.
In quei giorni era venuto a Ferrara, per il ventennale del Premio Estense ed invitato da Franco Farina a vedere la mostra ai Diamanti “I Dalì di Salvador Dalì”, l’allora Presidente del Senato, Francesco Cossiga. Volle conoscere e salutare tutti gli scultori, e successe che, alla presentazione con Adriana, questa non lo riconobbe affatto, impegnata com’era a creare il suo folle e disperato Orlando . E alla sua domanda: “Chi è il signore?”, tutti i presenti imbarazzatissimi tirarono un respiro di sollievo al sentirlo amabilmente rispondere: “Ha ragione, non sono affatto fotogenico!”


Aneddoti e ricordi riemersi quindi dall’oblio, dopo più di trent’anni, insieme alle tante foto di alcuni fotografi ferraresi che li avevano immortalati. E che riappaiono ora, quando si è appena conclusa la straordinaria mostra a Palazzo dei Diamanti, che ha affascinato migliaia di visitatori. Un'immersione, questa, colta ed incantata nell’immaginario del Poeta, mentre allora, nel "laboratorio furioso", un viaggio di tanti artisti nella fantasia ariostesca per tradurre nel legno il senno di Orlando perduto sulla luna..
Nella consapevolezza del debito perenne che questa città ha con chi ha reso un valore universale il volo infinito del proprio immaginario.















mercoledì 4 gennaio 2017

Hugo Aisemberg: la malìa argentina nel cuore di Ferrara






Rimangono vive e pulsanti, come istantanee ferme nel tempo, le immagini che scrittori, intellettuali, artisti, viaggiatori dei secoli scorsi, ci hanno raccontato: sensazioni vissute al loro passaggio a Ferrara, nei lunghi viaggi attraverso l’Italia.

Se Michel de Montagne descrive con stupore la rosa a novembre nell’orto dei Gesuati, Charles de Brosses rimane incantato dall’erbetta tra i ciottoli delle strade di una città abitata solo da gatti turchini. De Chirico e Savinio trasfigurano in metafisica questa città dai “mille misteri naturali”, D’Annunzio canta la deserta bellezza di queste ”vie piane, grandi come fiumane che conducono all’infinito” e Carducci immagina poeti e duchesse entrare a palazzo Prosperi Sacrati.
Guido Piovene decanta la “grazia svaporata” della città e definisce Corso Ercole I d’Este la più bella strada d’Italia. Soltanto Goethe, sulle orme di Ariosto e Tasso, riparte sconfortato..

 Ricordare le parole che questi illustri personaggi hanno dedicato alla nostra città è vedere con altri occhi il nostro mondo, con un brivido di emozione.
Ma l’emozione si fa più viva e appagante se chi ha scelto Ferrara non come tappa di un viaggio, ma come luogo in cui vivere, ci accoglie e si racconta, nella sua casa di Via Muzzina: Hugo Aisemberg, straordinario pianista e compositore argentino, ha scelto infatti di abitare qui, dentro le nostre mura rinascimentali, da sette anni.

Conosco lui e la moglie Rosi da quando vollero scoprire il mio studio di scultura, qualche anno fa. Dopo pochi minuti li sentivo già amici preziosi, il cui sorriso dona calore. “Questo è un mondo nel mondo”, mi confida ora di aver pensato allora, in quell’incontro.

 Mi racconta, nel suo delizioso italiano perfetto con accento argentino, tutta la sua ricchissima vita.

Già la prima riga della sua biografia in wikipedia potrebbe da sola costituire il tema di un romanzo: ” Nasce nel 1938 a Buenos Aires da una famiglia ebrea di Odessa emigrata in Argentina scappando dalle persecuzioni dello Zar.” Ma il seguito è un susseguirsi di colpi di scena tali da rischiare di perdere il filo!

Il padre, che musicista non era affatto, era fermamente deciso ad avere un figlio pianista. E giocoforza Hugo lo diventa, tra mille bugie per godere attimi spensierati di infanzia, superando solo da adulto il conflitto di questa imposizione. La musica, ormai parte integrante di sé, lo accompagna tutta la vita, regalandogli fama e successi. E trasmette questa dote e passione ai suoi sei figli, divenuti poi tutti musicisti!

 Ma andiamo avanti nel racconto: dopo aver vissuto fino a trent’anni a Buenos Aires, va a Budapest con la prima moglie e là nascono i primi due figli, Juan Lucas e Livia. Terminati i due anni di borsa di studio all’Accademia F.Liszt, con rammarico lascia l’Ungheria e ritorna in Argentina (con un viaggio in nave durato tre settimane!), dove nasce la terza figlia, Alida.
 La difficile situazione del proprio paese lo fa decidere di tornare in Europa e sceglie le cattedre del Collegium Musicum di Sezze Romano e Latina, dove lo raggiunge la famiglia. Ma dopo un anno la moglie muore tragicamente in un incidente e lui rimane solo con i tre figli piccoli.
 Il passaggio dall’infinitamente grande Buenos Aires al piccolo paese laziale gli è di conforto, offrendogli il calore e la solidarietà necessari per continuare, e vi rimane otto anni. Dall’Argentina arriva una ragazza, amica di famiglia, ad aiutarlo nella gestione familiare e Hugo insegna anche al Conservatorio di Reggio Calabria e a Praia a Mare, in un rocambolesco rincorrersi di treni su cui salire nel cuore delle notti.
 Ottiene quindi il trasferimento al prestigioso Conservatorio G.Rossini di Pesaro e dopo pochi anni si risposa con una collega insegnante da cui ha altri tre figli: Irene, Aloisa e Saul. Qui vive trent’anni, ma il matrimonio si conclude con un divorzio e in seguito inaspettatamente ritrova, durante un suo concerto a Roma, dopo un primo  e unico incontro avvenuto ventisette anni prima, colei con la quale vive ora, da tredici anni.

Era arrivato il momento, raggiunta la pensione lavorativa e volendo allontanare l’amarezza dei dissapori coniugali passati, di scegliere una nuova città in cui vivere felicemente con Rosi. E arriviamo infine a Ferrara!


“Come mai ha scelto proprio la nostra città, Hugo?”


“A Pesaro vivevo in una bella casa in campagna, con tanti figli e tanti ulivi! Ma volendo andarmene, cercavo una città altrettanto piccola, a dimensione d’uomo. Sono arrivato qui, invitato per un primo concerto, nel 1999, in un capodanno freddissimo. Ricordo di essere passato sotto il magnifico castello, uscendo dal teatro, ma l'aria gelida mi ha fatto rinunciare alla scoperta della città.
Poi sono tornato per un secondo concerto anni dopo a primavera inoltrata e sono rimasto incantato dalla visione del Duomo dalla Piazza del Municipio, da palazzo dei Diamanti, dal ghetto.. Meravigliato, ecco.
 Per fortuna Rosi ha condiviso subito il mio innamoramento per questa città ed abbiamo trovato casa in questa via silenziosa a pochi passi dal centro. Di fronte c’era lo studio di Daniela Carletti e poco più in là c’è quello di Sergio Zanni. Ci hanno fatto conoscere Gianfranco Goberti e in poco tempo siamo diventati amici di molti artisti ferraresi.  Con Cristina Carini, formidabile pianista ferrarese, l’amicizia era iniziata a Pesaro, dove anch’essa ha insegnato al Conservatorio per molti anni, ed ora con grande piacere la ritrovo in città.
Qui ho conosciuto l’argentina Nora Lomi, insegnante di spagnolo al liceo Ariosto, grazie alla cui preziosa scuola ad hoc di cucina mia moglie ha imparato a creare i piatti del mio paese, che non gustavo più da cinquant’anni!
Insomma, eravamo soli ed ora siamo circondati da amici. Quando qualcuno mi chiama, mi illumino!”


“Cosa ti piace, quindi, in particolar modo di Ferrara?”


“Passeggiare! Perdermi nel silenzio e nella pace delle vie medievali, arrivare a palazzo Schifanoia, scoprire e riassaporare gli stessi percorsi, non è mai uguale.  Non sei aggredito da macchine, da rumori. Gli unici motorini sono quelli dei ragazzi che portano le pizze! Poi Ercole d’Este e la città rinascimentale, così diversa ma parte di un universo unico. La vita a Ferrara per noi è una meraviglia. Rosi viene da Roma e apprezza come me questo rapporto umano: dialogare con il barista, salutare l’edicolante, i tanti piccoli incontri che sorprendono. Appartenere a questo nucleo, sentire che sei qualcuno anche per gli altri.  Poi Ferrara non è una città invadente, eppure ti accoglie ovunque. Mi piace venga riconosciuto il mio ruolo, perché ho sempre desiderato condividere quello che conosco e che sono, nell’amore per le mie radici.”


 “Ma a volte non ti sta un po’ “stretta”, questa città così piccola?”


“Forse per un giovane lo può essere. E’ una città ricca di attività, avvenimenti, proposte, ma si potrebbe fare anche di più. Parlando del mio ambito artistico, ad esempio, è un peccato che i concerti al Ridotto non abbiano finanziamenti. Io sono contento, al di là di questo aspetto, dei rapporti creati con il Teatro Comunale, con la Biblioteca Ariostea, con il Conservatorio, con il Jazz Club.
La collaborazione con il teatro, con Dario Favretti, è iniziata da subito, quando mi sono stabilito a Ferrara. Però ancora non conoscevo musicisti di qui, per cui chiamavo sempre quelli che frequentavo a Pesaro, perché mi è sempre piaciuto aiutare ragazzi giovani a farsi apprezzare. Ora invece ho tra gli amici tanti bravi strumentisti ferraresi! Ti si apre un universo di creatività e attività, inventando progetti da portare avanti.
 “Ferrara musica” ha un’ottima direzione artistica, che chiama il meglio che c’è nel mondo. Io posso portare il mio contributo esclusivo della musica e del mondo argentini, che racchiude la mia esperienza, le mie conoscenze, la mia anima. Come il recente omaggio a Borges creato dalla Associazione Culturale Astor Piazzolla, ad esempio, che tante persone hanno seguito alla sala Agnelli, presentato dallo scrittore Roberto Pazzi.
Se venissero domani un brasiliano, un turco, un senegalese a fare quello che faccio io, portando il loro mondo anche qui, dove già una cultura universale esiste, sarebbe una cosa meravigliosa!”


 "Comunque tu spesso parti, chiamato per concerti in giro per il mondo. Magari insieme a qualcuno dei tuoi figli musicisti. Così come capita che sia invece tu a chiamarli qui per suonare con te. Come nel concerto che avverrà nei prossimi giorni, in cui ben tre su sei musicisti sono Aisemberg! Verranno tuo figlio Juan Lucas da Berlino, dove suona la viola da quando aveva vent’anni nell’orchestra della “Deutsche Oper” e tua figlia Aloisa, violinista dell’Orchestra Giovanile “L. Cherubini”, diretta dal Maestro Riccardo Muti e cantante nel Coro di Voci Bianche del Teatro Comunale di Bologna. Il primo come componente del tuo gruppo Novitango, la seconda come artista ospite.
 E gli altri tuoi figli? Raccontaci!”


“ Livia, dopo il conservatorio, ha scelto di diventare psicanalista e vive a Roma, Alida è pianista a Berlino e dirige una scuola per figli di italiani, Irene fa la pianista a Barcellona e ha creato una scuola di musica con il suo compagno cileno, poi c’è Saul, il più piccolo, che ha studiato clarinetto e fa il fonico. Tra il primo, nato nel 1967 e l’ultimo, del 1990, ci sono quasi venticinque anni di differenza: sono stato un quarto di secolo cambiando pannolini!”




Abbiamo riso e sorriso tante volte, Hugo ed io, in queste due ore di racconti.
E' quasi ora ci cena e arriva Rosi, indaffaratissima nella gestione preparatoria del concerto. L'idea infatti è partita da lei, come amoroso omaggio a Hugo, per ricordare importanti anniversari della sua vita e anticipando la festa per il suo ottantesimo compleanno: 50 anni dalla prima volta in cui Aisemberg ha portato nei concerti la musica di Astor Piazzolla, trascrivendola per pianoforte e 30 dalla nascita del gruppo strumentale Novitango, da lui diretto, che porta la musica argentina nel mondo.








       Hugo e Rosi hanno posato per me nella raccolta di scatti fotografici a coppie di artisti, “Le Muse quietanti”, attualmente esposta nelle due sedi della MLB  home gallery e dell’ Art gallery dell’Hotel Annunziata. Mi confida ora Hugo:
“Essere considerati come una coppia di Ferrara, riconosciuta insieme a tutte le altre meravigliose che tu hai ritratto, per noi è come un traguardo. Ci siamo guardati con Rosi e abbiamo detto: siamo arrivati!”




Grazie, Hugo, della tua presenza tra noi. Verremo in tanti ad applaudirti, a questo prossimo e ai futuri concerti che ci regalerai!